I broligarchi sognano la fine della democrazia

a cura di Leonardo Bianchi
I broligarchi sognano la fine della democrazia

L’account social ufficiale della Casa Bianca – ormai pressoché indistinguibile da un qualsiasi profilo gestito da troll e shitposter – ha voluto celebrare i primi sei mesi dell’amministrazione Trump a modo suo: pubblicando una pacchiana illustrazione generata con l’intelligenza artificiale in cui il 47esimo presidente è circondato da dollari che svolazzano, aquile e fuochi d’artificio.

Nel testo di accompagnamento si legge: “Andiamo avanti. A tavoletta. Le vittorie continueranno. Le espulsioni continueranno. I meme continueranno”. Poi c’è la promessa finale, in caratteri cubitali: “L’ETÀ DELL’ORO CONTINUERÀ”.

In un altro post sono elencati i provvedimenti e gli ordini esecutivi più importanti emanati finora. Al di là della loro qualità, la mera quantità è impressionante; ed è probabilmente per questo motivo che gli ultimi sei mesi sono sembrati sei anni.

Il ritorno di Trump ha portato alle estreme conseguenze il concetto di “sommergere la stanza di merda” (flooding the zone with shit) elaborato da Steve Bannon, ex consulente strategico durante il primo mandato nonché uno dei principali ideologi della base MAGA, che prende il nome dallo slogan trumpiano “Make America Great Again”.

In sostanza, spiegava Bannon in un’intervista di qualche anno fa, si devono “mandare in cortocircuito” i media e l’opposizione tempestandoli di notizie false, mezze verità, provocazioni, slogan e teorie del complotto. La velocità con cui lo si fa è cruciale: bisogna sempre andare al massimo, senza lasciar respirare gli avversari.

Per qualcuno, tuttavia, Trump non sta facendo ancora abbastanza. è partito bene, d’accordo, ma ora sta rallentando – e sta rallentando troppo. Per tornare a correre c’è soltanto una soluzione: un bel colpo di stato con cui porre fine al “fallito esperimento democratico degli ultimi due secoli”.

Lo ha proposto seriamente, nella sua newsletter, il 52enne Curtis Yarvin, uno dei teorici di punta della corrente neoreazionaria della destra statunitense e del cosiddetto “illuminismo oscuro“, un movimento filosofico antidemocratico e libertarista descritto dalla giornalista Jessica Klein in questi termini: “un’alt-right che ha letto Nietzsche e H.P. Lovecraft”.

Una foto di Curtis Yarvin.

Yarvin, che si è a lungo firmato con lo pseudonimo Mencius Moldbug, non immagina però una dittatura vecchio stile: niente colonnelli con gli occhiali scuri, per intenderci, né caudillos che indossano divise sgargianti o tute acetate. Il suo modello autoritario, come ha sottolineato lo storico Joshua Tait nel saggio Key Thinkers of the Radical Right, è l’azienda.

Lo Stato dovrebbe infatti essere completamente “privatizzato” per massimizzare i profitti degli “azionisti” – magnati e tecno-oligarchi – che si scelgono il loro “amministratore delegato-monarca”.

Uno dei passaggi chiave per arrivare a questa sorta di “monarchia aziendale” è lo smantellamento dell’apparato burocratico federale. In un post del 2012 Yarvin ha coniato l’acronimo RAGE, Retire All Government Employees, che per l’appunto significa “licenziare tutti i dipendenti governativi” e rimpiazzarli con persone fedeli al “monarca delegato”.

Lungi dal rimanere confinata nel suo blog, la proposta del RAGE è stata citata nel 2021 dall’allora candidato al Senato JD Vance ed è stata parzialmente messa in pratica da Elon Musk con il suo Dipartimento dell’efficienza governativa (DOGE).

Yarvin, insomma, esercita una certa influenza intellettuale sugli ambienti trumpiani e – soprattutto – sulla corrente reazionaria della Silicon Valley.

Essendo stato anche uno sviluppatore di software, il blogger utilizza la stessa lingua dei tech bro e infarcisce i suoi testi di metafore informatiche e riferimenti alla programmazione: la democrazia, giusto per citare un post del 2022, è un “sistema operativo obsoleto” che va “riavviato” e “ricodificato”.

La sua startup, chiamata Tlon in onore di un racconto dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, ha inoltre ricevuto copiosi finanziamenti da parte del venture capitalist Marc Andreessen – il co-fondatore di Netscape, noto più che altro per la testa a forma di uovo che lo rende sinistramente simile al cattivo di Sonice dal magnate sudafricano Peter Thiel.

Quest’ultimo è il co-fondatore di Paypal (insieme a Musk) e il fondatore dell’azienda di analisi dei dati Palantir, nonché l’eminenza grigia della cosiddetta tech-right. La sua visione del mondo è molto simile a quella di Yarvin, con cui intrattiene rapporti piuttosto stretti: anche Thiel è anti politicamente-corretto, anti-Stato e anti-democrazia.


Il venture capitalist Marc Andreessen.

Nel 1995 ha pubblicato insieme a David Sacks (anche lui sudafricano e membro della famigerata PayPal Mafia) il libro Il mito della diversità, in cui si scagliava contro i programmi di inclusione e gli studi decoloniali che – a suo dire – sarebbero un cavallo di Troia con cui far penetrare idee comuniste all’interno dei campus universitari e nella Silicon Valley.

Diversi passaggi del testo sono ferocemente anti-femministi e misogini; a un certo punto si arriva addirittura a minimizzare lo stupro. Un’accusa di violenza sessuale, scrivono i due, “può indicare nient’altro che un rimpianto tardivo, perché una donna potrebbe ‘rendersi conto’ di essere stata ‘violentata’ il giorno dopo o anche molti giorni dopo [il rapporto]”.

Thiel è poi ossessionato dall’apocalisse, ovvero il declino dell’Occidente, e pensa di essere l’unico in grado di fermare l’Anticristo – che per lui ha le fattezze di Greta Thunberg (lo ha detto più di una volta, e non in senso metaforico).

Questa percezione di onnipotenza gli deriva principalmente dalla lettura di un libro del 1997, intitolato L’individuo sovrano e scritto da James Dale Davidson e William Rees-Mogg. Tra le varie cose, il saggio paragona i miliardari agli “dei della mitologia greca” e li invita a impiegare le loro immense risorse per “riprogettare i governi” e “riconfigurare le economie”.


Peter Thiel.

Prendendo spunto dalle suggestioni di Davidson e Rees-Moog, Thiel è poi arrivato a rigettare del tutto quella che definisce la “politica elettorale”. In un manifesto del 2009 ha ribadito che gli ultraricchi devono “fuggire dallo Stato” – e dal fisco – in ogni modo possibile: attraverso Internet, le criptovalute, la colonizzazione di altri pianeti, bunker fortificati in Nuova Zelanda o città-stato galleggianti (il cosiddetto seasteading). Nel brano più significativo di quel testo Thiel si è detto convinto che “la democrazia e la libertà non sono per forza di cose compatibili”.

Alla luce di questo percorso ideologico non è sorprendente che nel 2016 sia stato il primo magnate della Silicon Valley a sostenere la candidatura di Donald Trump. All’epoca la scelta era stata criticata dai suoi simili, ma Thiel – che poi rimarrà deluso dal primo mandato trumpiano e finanzierà la carriera politica del vicepresidente JD Vance – in realtà aveva soltanto anticipato i tempi.

Tant’è che, nel luglio del 2024, David Sacks ha invitato gli imprenditori a unirsi alla campagna di Trump con questa esortazione su X: “Venite, l’acqua è tiepida”. In molti hanno raccolto quell’invito – compresi quelli che in passato avevano sostenuto i democratici, come Marc Andreessen, o che non si erano mai immischiati più di tanto nella politica, come Elon Musk.

Nei primi mesi del secondo mandato, tra saluti nazisti e motoseghe brandizzate, è sembrato che Musk potesse esercitare un’influenza pari – se non addirittura superiore – a quella di Trump. Era il boss finale dei broligarchi, la punta di diamante della tech-right, l’accelerazione reazionaria fattasi carne.

Com’è noto, l’uomo più ricco del mondo ha messo al completo servizio di Trump la sua piattaforma X e si è letteralmente comprato un posto nell’amministrazione a suon di centinaia di milioni di dollari.

Nei primi mesi del secondo mandato, tra saluti nazisti e motoseghe brandizzate, è sembrato che Musk potesse esercitare un’influenza pari – se non addirittura superiore – a quella di Trump. Era il boss finale dei broligarchi, la punta di diamante della tech-right, l’accelerazione reazionaria fattasi carne. E il DOGE pareva davvero l’incarnazione delle idee di Yarvin – il colpo definitivo alla macchina federale che avrebbe portato all’agognato reboot del sistema.

Ma il suo coinvolgimento non ha dato i frutti sperati. Al contrario: le agenzie federali hanno resistito (almeno per il momento) all’assedio dell’ultramiliardario e della sua squadra di giovani ingegneri informatici redpillati; i rapporti con i membri dell’amministrazione si sono inaspriti sempre di più, fino ad arrivare alle spinte fisiche nei corridoi della Casa Bianca; e alla fine, Musk ha lasciato il DOGE e si è messo a litigare furiosamente con Trump.

Il primo round c’è stato a giugno: il proprietario di Tesla aveva criticato la “Big, Beautiful Bill” trumpiana (la legge di bilancio approvata in via definitiva il 3 luglio dalla Camera), bollandola come una “follia” che avrebbe causato una recessione.

Nel corso di un incontro allo Studio Ovale Trump aveva risposto in maniera piccata, dicendo che avrebbe vinto le elezioni anche senza i soldi di Musk. Il quale aveva subito controbattuto su X: “Senza di me Trump avrebbe perso. Che ingratitudine”.

Trump aveva a sua volta replicato su Truth Social scrivendo che Musk è “uscito di testa” perché nella legge c’è il taglio dei sussidi alle auto elettriche, per poi minacciare di rescindere i contratti governativi con le imprese del magnate sudafricano. In privato pare che l’abbia definito “un tossico” per il suo elevato e abituale consumo di droghe, rivelato da un articolo del New York Times incredibilmente simile all’incipit di Paura e delirio a Las Vegas di Hunter S. Thompson.


Musk e Trump nello Studio Ovale della Casa Bianca.

Musk aveva risposto sganciando una “grande bomba”: ossia rivelando (in anticipo) che il nome di Trump compare più volte negli “Epstein files” – i documenti processuali sul caso del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein, suicidatosi in carcere nel 2019 e da allora al centro di svariate teorie del complotto alimentate dallo stesso presidente.

La faida sembrava essere rientrata dopo qualche giorno, ma è riesplosa all’inizio di luglio. Musk è tornato a criticare la legge di bilancio e ha annunciato la creazione – non si sa quanto seria o provocatoria – di un nuovo partito politico, l’America Party.

Trump ha ribattuto a muso durissimo. In successione ha minacciato di usare il DOGE contro Musk, di espellerlo dagli Stati Uniti e di togliergli sussidi e sgravi fiscali. Senza gli aiuti statali, ha scritto su Truth Social, “Elon dovrebbe chiudere bottega e tornare a casa in Sudafrica. Niente più lanci di razzi, satelliti o auto elettriche, e il nostro Paese risparmierebbe una FORTUNA”.

Il che è oggettivamente vero; e la cosa non riguarda di certo solo Musk. Nonostante la tech-right sogni la liberazione dallo Stato, i tecno-oligarchi dipendono a tutti gli effetti dallo Stato e quindi dal potere politico.

è proprio questa la linea di faglia su cui si sta consumando il più acceso scontro interno nella coalizione trumpiana.

Da un lato ci sono i populisti MAGA alla Steve Bannon, che non si fidano degli oligarchi e ritengono che il potere tecnologico debba essere completamente subordinato all’autorità politica che trae la sua legittimazione dal consenso popolare. Dall’altro ci sono gli Yarvin e i Thiel, che vorrebbero sbarazzarsi della democrazia e non hanno alcun interesse a ottenere il consenso.

Per loro non è importante che il re sia Trump – lui non durerà in eterno, a differenza degli imprenditori della Silicon Valley che stanno cercando di invertire il processo di invecchiamento. Piuttosto, è importante che venga instaurata una forma di monarchia ipermoderna che risponde ai loro interessi.

Ma i desideri di Yarvin e della tech-right sono estremamente rischiosi, specialmente per loro stessi. Dopotutto, un autocrate – o un re – non guarda in faccia a nessuno: men che meno agli alleati che non s’inchinano abbastanza.

Per certi versi l’attuale situazione statunitense ricorda la fase iniziale del consolidamento del regime di Vladimir Putin, che del resto è uno dei modelli di Trump.

L’ascesa del presidente russo è stata attivamente sostenuta dai nuovi oligarchi che erano diventati tali spolpando le aziende statali dell’Unione Sovietica. Quella che ritenevano la propria creatura politica – e pertanto manovrabile a loro piacimento – gli si è però rivoltata contro in maniera spietata.

Il giornalista Greg Rosalsky ha ricordato che all’inizio degli anni Duemila Putin aveva offerto un patto molto chiaro: se vi piegate alla mia autorità potete tenervi le vostre ville, i vostri jet privati e le vostre società multimiliardarie. Se non lo fate vi aspettano prigioni siberiane, l’esilio, malori sospetti e strani voli dalle finestre – cosa che poi si è effettivamente verificata in vari casi.

Ora: è improbabile che Elon Musk o Mark Zuckerberg facciano la stessa fine di un Mikhail Khodorkovsky, per dire, o che cadano improvvisamente da un grattacielo. Al tempo stesso, non è più così improbabile che vengano tolti di mezzo se oltrepassano certe linee rosse.

Se dovesse succedere, allora sapremo quale fazione sta avendo la meglio.

LEONARDO BIANCHI

Leonardo Bianchi è giornalista e scrittore. Collabora principalmente con Internazionale, Valigia Blu e il Manifesto. è autore della newsletter Complotti!, che si occupa di complottismo e disinformazione. Il suo ultimo libro è Le prime gocce della tempesta. Miti, armi e terrore dell’estrema destra globale.