«Representation no longer exists; there’s only action.»
Gilles Deleuze from “Intellectuals and Power”,
a conversation between Michel Foucault and Gilles Deleuze
C’è una lingua che non si insegna, né si corregge e né, tantomeno, ci chiede il permesso. Una lingua che scorre altrove, parallela ma non periferica, che si genera nei flussi di chat, vocali, server Discord, stream, reel, e plasma un’intera sintassi. è una lingua che si avvia, i suoi verbi non sono nomi del mondo, sono gesti diretti, segmenti operativi, shortcut. Non si tratta di uno slang, un dialetto generazionale o un codice per iniziati, è qualcosa di diverso, è un codice sorgente in mutazione, come un’interfaccia linguistica che si ricompila di continuo. Non ci troviamo davanti a una lingua derivata, ma a una forma nuova della lingua stessa, che è funzionale, rizomatica, performativa, che nasce dall’uso. La grammatica, in questo paesaggio, non è più una struttura normativa, ma una topologia dinamica. Il lessico è repertorio in stato di allerta, pronto a modificarsi. Il significato è elastico, scivoloso, produttivo. A ogni nuovo contesto un verbo può mutare forma e funzione. “Droppare” (dall’inglese “to drop” – far cadere, gocciolare) non ha un significato univoco, può voler dire pubblicare, condividere, rilasciare un file, mollare un evento, lasciare andare qualcosa, una persona, un contenuto, una responsabilità. Il suo significato vero non esiste in astratto, esiste solo in azione, nel momento preciso in cui viene detto o scritto. In questo senso, la lingua digitale non è una lingua povera, né disordinata. è una lingua esatta nel suo ambiente, calibrata su velocità, visibilità e propagazione. è una lingua fatta per circolare, non per stare ferma.
Negli anni ’80 Vilém Flusser rifletteva sulla trasformazione della cultura, osservando come si stesse passando da una civiltà fondata sul linguaggio alfabetico, lineare e logico-grammaticale a una nuova dimensione dominata dai codici che fosse più interattiva, simbolica e sincretica. In questo contesto il linguaggio perde la sua funzione puramente descrittiva e si trasforma in uno strumento operativo, le parole diventano leve d’azione, comandi, shortcut semantiche, codici in grado di generare risposte immediate all’interno di sistemi comunicativi complessi.
Ogni verbo nuovo è un frammento di codice, non nel senso tecnico-informatico, ma nel senso più profondo di una lingua che esegue effetti nel mondo. “Pushare” (dall’inglese “to push”, spingere) non è dire “spingere” nel senso classico, è spostare qualcosa in avanti, in un gioco, in una relazione, in una dinamica di gruppo. “Skillare” (dall’inglese “skill”, abilità) non è “essere abile”, ma mostrare efficacia su un piano preciso, esperienziale. “Blastare” (dall’inglese “to blast”, distruggere o far esplodere) non è “ridicolizzare” in senso morale, ma eseguire una performance pubblica di dominio simbolico. Questi verbi funzionano e agiscono, per questo restano. In questo scenario, parlare non è più un atto espressivo, ma un gesto strategico, un modo di muoversi su una superficie collettiva
Il linguaggio qui si comporta come un gioco modulare, dove ogni nuova espressione è una skin temporanea, un aggiornamento, un’estensione. La lingua si patcha come si patcha un videogioco, e ogni nuova parola è una release non annunciata.
è nello spazio interattivo del gaming online che molte di queste parole vengono coniate e testate. “Farmare”, “clutchare”, “pushare”, “grindare”, “buildare”, sono verbi nati in ambienti dove il linguaggio è funzione immediata, adattiva, situata. Nei giochi multiplayer la parola non serve tanto a raccontare o descrivere ma a fare. Il vocabolario diventa tattico, performativo, ridotto all’essenziale, continuamente aggiornato sulla base dell’esperienza e dell’efficacia. è un linguaggio per interfacce umane che devono agire in sincronia, non un codice espressivo, ma operativo. Alexander Galloway, in Gaming: Essays on Algorithmic Culture, descrive proprio il videogioco come “azione”, non come rappresentazione. Giocare è eseguire comandi, interagire con un sistema che risponde in tempo reale. In questo contesto, anche il linguaggio si riconfigura: diventa un’estensione del gameplay. Le parole non sono segni da interpretare, ma piuttosto eventi da attivare. Ogni termine è un input, ogni frase è una strategia. è da qui che si propaga l’idea della lingua come strumento modulare, un sistema di shortcut semantici pensati per modificare lo stato del gioco e poi, per estensione, della realtà condivisa.
“[…] dove le frasi si divaricano e si disperdono, oppure si urtano e coesistono, e le lettere, la tipografia si mette a danzare, via via che la crociata delira. Ecco dei modelli di scrittura nomade e rizomatica, la scrittura sposa una macchina da guerra e delle linee di fuga, abbandona gli strati, le segmentarità, la sedentarietà, l’apparato di Stato.” Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Gilles Deleuze, Felix Guattari
Gilles Deleuze, nel suo pensiero mobile e anti-gerarchico, parlava del linguaggio come di un campo di forze, non di un insieme di segni. In Millepiani scriveva che la lingua non è una struttura fissa ma un rizoma: una rete decentralizzata, non gerarchica, in cui ogni elemento può connettersi a ogni altro. Parlare, dunque, non è articolare significati già dati, ma aprire percorsi, generare scarti, deviazioni. Ogni parola può deterritorializzarsi, cioè perdere il suo ancoraggio e assumere nuove funzioni. I giovani che oggi shottano, cringiano, flexano, non stanno semplicemente storpiando l’italiano, stanno facendo ciò che Deleuze definiva “linee di fuga”, movimenti linguistici che liberano il senso da ogni rigidità, per reinventarlo nella connessione fluida, situata, istantanea del presente. L’errore, infatti, è parte integrante del processo. Inizialmente ogni parola nuova è un glitch che non funziona secondo le regole, suona “sbagliata”, ma è proprio questa deviazione a generare spazio per il senso.
Il verbo anomalo è un bug che, se replicato, diventa feature.
Il significato, in questa nuova grammatica rizomatica, non è più una proprietà della parola, ma un effetto della rete. Ogni termine significa in relazione ad altri, in relazione al contesto, alla piattaforma, alla cultura di riferimento. Tutto questo comporta una trasformazione radicale del nostro modo di concepire il linguaggio. Il verbo non è più una forma da coniugare: è una funzione da attivare. Ogni parola nuova viene testata, modificata, reinserita nel circuito. Non esiste più un uso corretto in senso normativo, ma solo una serie di usi localmente efficaci. L’efficacia sostituisce la grammatica. L’impatto sostituisce la coerenza. L’intuizione sostituisce la definizione.
Eppure non si tratta di caos. C’è un ordine fluido, emergente, come quello dei branchi, degli stormi o delle nuvole. Una semantica situata, collettiva. Non più una lingua da conservare, ma una lingua in continua emersione, che vive nei feed, nei server, nelle caption, nelle call, nelle emote. Una lingua che si cattura al volo, si imita, si reinterpreta, si farma. Una lingua che non si accumula per sapere di più, ma per agire meglio, più velocemente, più efficacemente. In questo paesaggio, non è più importante sapere da dove viene una parola, conta cosa e se fa. La genealogia cede il passo alla performatività dove la lingua diventa un campo di possibilità operative, una forma di software sociale, una strategia.
Molte di queste parole scompariranno? Certo, alcuni sono già obsoleti nel momento in cui vengono fissati su carta, proprio adesso. Ma il punto non è la permanenza, il punto è che la lingua contemporanea si comporta come un ecosistema in beta perenne. Si aggiorna da sé, si corregge in corsa, si reinventa ogni giorno. Non esiste una versione definitiva. Esiste solo la versione attuale, instabile, rizomatica, viva.
In questo senso, parlare oggi è come navigare in una lingua liquida, continuamente riaggregata. Non esistono mappe affidabili, solo rotte provvisorie. E forse è proprio qui che si annida un nuovo tipo di autenticità, non nel rispetto delle regole, ma nella capacità di inventarle in tempo reale. Droppare la lingua, allora, è un gesto simbolico, è lasciare andare una certa idea di linguaggio chiusa, lineare, trasparente e aprirsi a un’altra, ibrida, dinamica, nasty e potentemente instabile.
«Noi diciamo rawdoggare e tu dici “ma che cazzo stanno dicendo?”…»
«Eh ma questo è troppo zì…»
«Eh ma chi è la polizia del troppo?»dalla puntata di Epico! Podcast in live streaming su Twitch dal canale di Dario Moccia
Classe 1992, scrive per decifrare contemporaneità e futuro. Tra linguaggio, desiderio e utopie, esplora nuove visioni del mondo, cercando spazi di esistenza alternativi e possibili. Nel 2022 ha fondato un progetto di pensiero e divulgazione chiamato Fucina.