“E ti potresti trovare a vivere in un’era di estinzione di massa” è il titolo del saggio iniziale di All Art is Ecological di Timothy Morton (Penguin Classics, 2021). E ti potresti trovare a giocare in un’era di estinzione di massa se giochi a Death Stranding (Kojima Productions, Sony Interactive Entertainment., 2019) e Death Stranding 2: On the Beach (Kojima Productions, Sony Interactive Entertainment, 2025) da poco uscito per PlayStation 5.
Nella serie Death Stranding interpretiamo Sam Porter Bridges, un fattorino in una forse apocalisse in cui un evento chiamato Death Stranding ha sfumato i confini tra vita e morte. Ora, le anime delle persone defunte restano a volte bloccate nel nostro mondo come Creature Arenate (CA), ossessionate dalla ricerca del corpo che hanno perso, accompagnate da una pioggia capace di accelerare il tempo consumando edifici e creature viventi, la cronopioggia, e da una sostanza simile a catrame. Per sfuggire a CA e cronopioggia, la popolazione umana si è rintanata in città bunker connesse grazie a fattorini come il protagonista e alla rete chirale, una specie di internet che sfrutta la possibilità di comunicare attraverso la Spiaggia, una dimensione liminale che esiste al di là dal tempo, tra la vita e qualsiasi cosa ci sia dopo. Nei due videogiochi abbiamo il compito non solo di portare pacchi da un insediamento all’altro, ma anche di espandere la rete, connettendo in Death Stranding il territorio degli attuali Stati Uniti d’America e in Death Stranding 2: On the Beach quello di Messico e Australia. Nella nostra missione possiamo aiutarci posizionando strutture e infrastrutture come ponti e strade, e ciò che costruiamo (e il carico che perdiamo per strada) può apparire nei mondi di altre persone, aiutandole nella loro partita.
Quello che attraversiamo è nella finzione del gioco il sesto Death Stranding della storia terrestre, e ogni volta questo evento è stato collegato a una grande estinzione di massa. Nella conclusione del primo episodio il protagonista riesce a ritardare l’inizio della sesta estinzione ma sappiamo che sarà infine inevitabile, come inevitabili sono ormai gli effetti del Death Stranding: la convivenza tra vita e non vita, umano e non-umano, presente e passato. Il Death Stranding ricorda molto il cambiamento climatico, e come il cambiamento climatico è un buon esempio di ciò che Morton ha definito “iperoggetti”, un concetto formulato in Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico (Aboca, 2019) e approfondito in Iperoggetti (Nero, 2018). Gli iperoggetti sono “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo [rispetto agli esseri umani]”, tanto grandi da permetterci di vederne di volta in volta solo singole parti e capaci di innescare quella rivoluzione epistemologica e ontologica al centro della crisi dell’Antropocene, cioè di farci comprendere che “le entità non-umane sono responsabili della prossima fase del pensiero umano e della sua storia”.
Gli iperoggetti sono catramosi, viscosi: ci entrano dentro, ci si attaccano addosso. La cronopioggia porta con sé dalla Spiaggia una sostanza chiamata chiralium, e le persone che ne restano troppo a lungo esposte subiscono conseguenze sia fisiche sia psichiche, ne sono invase. Gli iperoggetti sono non-locali: il cambiamento climatico è un fenomeno globale di cui localmente vediamo solo limitati effetti. Noi vediamo il meteo e non il clima, e così vediamo la cronopioggia e non il Death Stranding. Gli iperoggetti esistono su una scala temporale diversa da quella umana e ci portano in contatto con diverse temporalità. Nel Death Stranding a volte il tempo viene accelerato, altre volte rovine del passato emergono dalle paludi di catrame. Le manifestazioni del Death Stranding e quelle degli altri iperoggetti appaiono e scompaiono, come se solo occasionalmente intersecassero la nostra dimensione. Gli iperoggetti sono inteoroggettivi, cioè si manifestano nella relazione, nell’impronta che lasciano, nella distorsione. Le CA appaiono proprio come impronte di catrame sul terreno e provocano reazioni fisiche, persino allergiche, in alcuni personaggi. Inoltre, Death Stranding parla di connessione, quella che portiamo nel mondo di gioco grazie al nostro lavoro come fattorino e all’espansione della rete chirale e quella tra le persone che giocano e condividono oggetti e strutture. E la connessione è al centro di ciò che Morton chiama il “pensiero ecologico”, che vuol dire appunto pensare tutto come interconnesso.
Il punto di vista di Death Stranding resta però molto antropocentrico. La sesta estinzione è un problema che riguarda soprattutto gli esseri umani. Non c’è una vera simulazione degli ecosistemi che attraversiamo e nel primo episodio gli animali non umani sono quasi assenti, sembrano essere già estinti: non c’è interesse per la loro sorte, o per quella della flora e in generale delle altre forme di vita. Non è neanche chiaro da dove provengano i materiali che otteniamo, consegniamo e usiamo. Per Morton “coesistiamo con forme di vita umane e non-umane così come con forme di non-vita, all’interno di una serie di gigantesche entità con cui pure coesistiamo”. In Death Stranding c’è invece ancora un fuori, un altrove invisibile da cui estraiamo risorse infinite, opposto a un dentro, una natura opposta a una cultura come anche un corpo opposto a un’anima. In Death Stranding tutti gli esseri umani sono connessi, e sono connessi con delle entità non propriamente più umane ma comunque a loro strettamente imparentate, cioè le anime dei morti. Ma non c’è molta connessione con gli altri animali, con le piante o con i minerali. è poi dubbio che nel conflitto tra persone vive e CA sia concepibile quella cura verso anche le parti più schifose e terrificanti della realtà (i rifiuti, le scorie radioattive) che Morton discute per esempio in Ecologia oscura. Logica della coesistenza futura (LUISS University Press, 2022). La prospettiva non cambia molto in Death Stranding 2: On the Beach, dove c’è però più interesse per queste tematiche. In Australia possiamo recuperare animali selvatici e portarli in un rifugio, e il mondo di gioco è meno statico, con un ciclo giorno/notte, tempeste di sabbia e di neve, alluvioni e terremoti. Stavolta vediamo (e usiamo) pure le miniere da cui provengono i materiali che ci servono per costruire strumenti e edifici, eppure il processo di estrazione non viene problematizzato.
Forse alla fine ciò che accomuna davvero la filosofia di Morton a Death Stranding è la stranezza. Death Stranding e Death Stranding 2: On the Beach cercano il fotorealismo, con attori e attrici soprattutto occidentali che interpretano e doppiano i personaggi (il protagonista è Norman Reedus, noto per la serie TV The Walking Dead) apparentemente scivolando in ciò che è stato definito uncanny valley, lo spazio in cui ciò che è artificiale (un robot per esempio) ricorda tanto l’essere umano da diventare perturbante. Ma per Morton non esiste un’uncanny valley, perché tutto è perturbante e ambiguo. Come tutto è perturbante e ambiguo in Death Stranding che prima abbraccia la sospensione dell’incredulità e poi la rifiuta, ci ricorda il suo essere software, cita e si autocita, si contraddice. Narrativamente, si accumulano in disordine scienza, fantascienza e psicologia, critica della tecnologia e della cultura statunitensi e loro celebrazione, tragedia spinta fino al patetico e metacommedia spinta fino al ridicolo. A testimonianza della grande influenza che Morton ha avuto sulle arti, nel catalogo (a cura di Klaus Biesenbach) della mostra che il Museum of Modern Art (MoMA) di New York ha dedicato nel 2015 alla cantante Björk è compreso anche uno scambio di email tra Bjork e Morton. “La Terra ha bisogno di questa tenerezza” scrive Morton. “Penso ci sia una qualche fusione di tenerezza e tristezza, gioia, brama, desiderio, orrore (questa è difficile), risata, malinconia e stranezza. Questa fusione è la sensazione che dà la consapevolezza ecologica”. Death Stranding è spesso un po’ così.
Matteo Lupetti si occupa di critica di arte, arte digitale e videogioco su testate come Artribune e Il Manifesto e all’estero. Ha fatto parte della redazione della rivista radicale menelique e della direzione artistica del festival di narrazioni di realtà Cretecon. Il suo primo libro è “UDO. Guida ai videogiochi nell’Antropocene” (Nuove Sido, Genova, 2023), rilettura del medium videoludico nell’epoca del cambiamento climatico e all’interno dei nuovi percorsi multisciplinari che mettono in primo piano il non umano e la sua agency.