Per un’estetica della fine del mondo

Per un’estetica della fine del mondo

Nell’epoca dell’Antropocene – quell’era geologica segnata dall’impatto irreversibile dell’uomo sul pianeta – l’arte è più che mai chiamata a svolgere il ruolo di “dispositivo di rivelazione”. Mi spiego: a fronte di un immaginario ormai saturo di dati, statistiche e immagini satellitari, molti artisti (digitali e non) hanno assunto il compito di rendere visibile l’invisibile, traducendo l’astrazione del disastro ecologico in forme sensibili. Non si tratta più soltanto di rappresentare la crisi climatica, ma di farla esperire, attraverso installazioni immersive, narrazioni speculative, intelligenze artificiali allenate su archivi ecologici e paesaggi generati da dati. è in questo scenario che si inserisce una nuova “estetica della fine del mondo”, che cerca di elaborare visivamente la tensione tra tempo geologico e presente tecnologico.

T.J. Demos, nel suo saggio Beyond the World’s End, sottolinea che “la crisi climatica è anche una crisi dell’immaginazione”. In un mondo in cui le catastrofi ambientali si sovrappongono a quelle sociali e politiche (da qui il concetto di policrisi), l’arte ha il compito di produrre nuove forme di pensiero critico e nuovi futuri immaginabili. Come mostrano anche Edwin Coomasaru e Theresa Deichert, autori del volume Art in Apocalyptic Times, l’arte contemporanea reagisce al senso di fine non con un’estetica del disastro spettacolare, ma con immagini che rivelano le stratificazioni lente dell’agonia ecologica. è il caso di Jenna Sutela, che in opere come nimiia cétiï esplora il linguaggio dei microbi e l’interazione tra forme di vita non-umane e algoritmi di machine learning. Qui la fine del mondo assume toni biopoetici, suggerendo un’ecologia aliena in cui la comunicazione e la sopravvivenza si giocano oltre il linguaggio umano. Sutela sposta l’attenzione dalla centralità antropica a una visione simbiotica, in cui la crisi climatica diventa anche occasione per ridisegnare il concetto stesso di soggettività.

Lo stesso avviene in Aquaphobia (2017) di Jakob Kudsk Steensen, opera che usa la realtà virtuale per immaginare un futuro post-apocalittico in cui l’essere umano è scomparso e un’entità acquatica assume il ruolo di narratrice. Una volta estinta l’umanità, ciò che resta è una coscienza liquida che ci accompagna in un viaggio attraverso i resti di un paesaggio sommerso, tra fango, radici e frammenti di infrastrutture abbandonate. In questo paesaggio speculativo, l’assenza dell’uomo è ciò che permette all’ambiente di raccontarsi. L’entità liquida che accompagna il visitatore – una creatura aliena, amorfa, evocata da suoni subacquei e versi poetici – sembra rivendicare un ecosistema che ha riconquistato la propria autonomia. Una voce fuori campo racconta una storia d’amore finita, un “breakup” fra il mondo naturale e il suo colonizzatore, l’uomo, che ha tentato invano di controllare ciò che non poteva comprendere. “Tu pensi di non essere parte di me, ma lo sei”, recita la voce, ricordandoci che ogni costruzione artificiale, ogni superficie urbana, poggia comunque sulla materia viva che abbiamo cercato di dominare. La fobia dell’acqua – elemento vitale e distruttivo, memoria geologica e soggetto poetico –diventa così una metafora dell’incapacità umana di accettare la propria interdipendenza ecologica.

L’installazione diventa una metafora di un’epoca in cui anche il nostro rapporto con la natura è mediato da simulazioni, da dati generati da modelli astratti, più attenti alla coerenza computazionale che alla complessità del vivente.

Ma l’immaginario apocalittico, per quanto permeato da oscurità e inquietudine, può rivelarsi anche un campo fertile di rivelazione – proprio come suggerisce l’etimologia del termine greco apokálypsis, che non indica la fine in sé, ma un disvelamento, un’apertura a ciò che è rimasto nascosto. In questa chiave, alcuni artisti contemporanei si servono della tecnologia non per glorificare l’innovazione, ma per mettere in discussione la sua promessa salvifica. Tra questi, Hito Steyerl si distingue per un approccio profondamente critico e ironico verso l’ideologia del progresso, specialmente quella veicolata dall’intelligenza artificiale e dagli algoritmi predittivi.

Nell’installazione This is the Future, presentata alla Biennale di Venezia nel 2019, l’artista tedesca costruisce un giardino digitale futuristico, in apparenza idilliaco, ispirato ai paesaggi lagunari e alle loro passerelle rialzate, ma completamente simulato da una rete neurale. I visitatori si muovono in uno spazio immersivo dove fiori digitali crescono, fioriscono e appassiscono in cicli infiniti, senza mai “esistere” veramente. La vita che scorre davanti agli occhi è una sequenza previsionale costruita da un’intelligenza artificiale addestrata su dati incompleti, fallibili, eppure presentata come verosimile. Steyerl interroga così la fiducia cieca nella capacità dell’AI di prevedere e risolvere i problemi del futuro: ci mostra un futuro che si alimenta delle stesse fallacie del presente, una distopia travestita da giardino.

In questo spazio artificiale, la tecnologia non è uno strumento di salvezza ma una lente che distorce, amplifica e talvolta sostituisce la realtà. L’installazione diventa una metafora di un’epoca in cui anche il nostro rapporto con la natura è mediato da simulazioni, da dati generati da modelli astratti, più attenti alla coerenza computazionale che alla complessità del vivente.

Così Steyerl non si limita a criticare il culto della tecnologia, ma lo decostruisce dall’interno, sfruttandone i linguaggi e i meccanismi per esporne le contraddizioni. Così facendo, invita lo spettatore a considerare che, nell’era dell’intelligenza artificiale e della simulazione pervasiva, la vera apocalisse potrebbe non essere un evento esplosivo, ma un lento e seducente processo di disconnessione dalla realtà, dove anche la crisi ambientale viene trasformata in uno spettacolo interattivo, tanto raffinato quanto inefficace.

Questa estetica dell’Antropocene – come affermato da Heather Davis e Etienne Turpin in Art in the Anthropocene: Encounters Among Aesthetics, Politics, Environments and Epistemologies – è “una fenomenologia sensoriale del vivere in un mondo tossico”. Ma è anche un dispositivo etico: l’arte diventa un campo d’azione in cui ripensare i nostri legami con il vivente e con il non umano. Non più narrazioni apocalittiche come esercizio di catarsi, ma immagini capaci di attivare processi di coscienza collettiva.

Come afferma Demos, siamo all'”endgame della democrazia, del capitalismo, del pianeta fresco e della stessa immaginazione”. Ma è proprio in questo crepuscolo che si aprono spazi di resistenza creativa. Le opere che tematizzano la fine del mondo non ci chiedono di accettarla, ma di vederla per intero, per poi decidere come reagire. In questo senso, l’estetica della fine è anche un’estetica dell’inizio. Un’occasione per immaginare ciò che può nascere dopo. O, come scrive Alexis Pauline Gumbs, “dopo le piccole e presenti apocalissi, dopo e con la fine del mondo come lo conoscevamo”.

In definitiva, l’estetica della fine del mondo non è né un semplice esercizio di rappresentazione del disastro né un’estensione del marketing del collasso. è, piuttosto, uno spazio critico e immaginativo in cui l’arte si misura con l’invisibilità dell’Antropocene, sfidando l’insufficienza delle categorie tradizionali della percezione e dell’empatia. In questo senso, queste opere non rappresentano la fine, ma offrono uno strumento per pensarla, sentirla, abitarla. Ci restituiscono un’estetica che è anche una pedagogia e una forma di resistenza: un invito a guardare con occhi nuovi ciò che abbiamo imparato a ignorare, a fare i conti con il nostro posto nel tempo profondo, e forse – come auspica T. J. Demos – a immaginare mondi oltre la fine.

Laura Cocciolillo

è una storica dell’arte specializzata in arte e nuove tecnologie e in estetica dei nuovi media. Dal 2019 collabora con Artribune (di cui attualmente si occupa dei contenuti di nuovi media). Nel 2020 fonda Chiasmo Magazine, rivista indipendente e autofinanziata di Arte Contemporanea. Dal 2023 è web editor per Sky Arte, e dallo stesso anno si prende cura, per art-frame, della rubrica “New Media”, dedicata all’arte digitale.