Bikemageddon: Apocalisse a pedali

Bikemageddon: Apocalisse a pedali

Quel ramo del lago di Como, se percorso in linea retta verso mezzogiorno con una deviazione a ovest di ventinove gradi rispetto all’asse nord-sud, conduce a una città grande e popolosa, tutta navigli e palazzi, piazzata nel cuore di quel grande rifiuto tossico che chiamiamo Pianura Padana. Lo dice già il suo nome latino, Mediolanum, formato dalle parole medio e (p)lanum, cioè “in mezzo alla pianura”. E infatti, com’è ragionevole aspettarsi da una città di pianura, è piatta.

Nell’immaginario comune, Milano è sempre stata una città grigia. Grigia di smog, di asfalto e di pioggia. Ma a dir la verità non piove poi così tanto. La media è di 86 giorni l’anno, quindi quasi la metà rispetto ai 185 di Amsterdam, città che nessuno esiterebbe a definire piovosa. I lettori insofferenti al cattivo tempo possono quindi sentirsi rassicurati: la poco lusinghiera etichetta di “città grigia” ha in effetti a che fare più con lo smog che con la pioggia.

Non è raro infatti che i milanesi, aprendo l’app meteo dell’iPhone, vedano la città colorarsi di una esuberante tonalità violetta. Basta poi allargare la mappa per ammirare l’intera Pianura Padana sfavillare come un lago d’ametista incastonato in un pattern digital camo a chiazze bordeaux e rosse. Sono i colori che l’app assegna ai livelli massimi di inquinamento atmosferico, una rappresentazione grafica di ciò che l’Agenzia europea dell’ambiente certifica nei suoi rapporti annuali (ultimo aggiornamento 2023): la Pianura Padana è l’area più inquinata dell’Europa occidentale.

Le cause di questo primato non sono un mistero: industrializzazione massiccia, agricoltura intensiva e densità abitativa, unite alla scarsa ventilazione dovuta all’arco alpino che chiude il bacino. A Milano però, l’inquinamento deriva soprattutto dal traffico urbano, in larga parte privato. Secondo ARPA Lombardia, auto e moto rappresentano la fetta più consistente dei veicoli in circolazione e, anche se i mezzi per il trasporto di merci e passeggeri hanno un impatto maggiore sulle emissioni per singolo veicolo, sono i numeri delle auto private a fare la differenza.

ph. Riccardo Raspa for Rayon Vert campaign “Born to Walk, Forced to Drive”

è vero che a Milano non abbiamo tutti giorni freddi e piovosi di Amsterdam, ma se è per questo non disponiamo nemmeno del suo bravo welfare nordeuropeo che investe nel trasporto pubblico. Eppure, anche tenendo conto di ciò, non le si può negare il merito di aver fatto del detto “Non esiste il cattivo tempo, solo cattivi vestiti” un caposaldo ideologico per i suoi abitanti.

Se infatti la capitale olandese spedisce quotidianamente frotte di impiegati a pedalare sotto l’acqua con stoica serenità, Milano – che riesce nell’impresa di combinare un clima tutto sommato mite con un’alta sensibilità per il taglio dei vestiti – sembra rigettare l’idea stessa di un abbigliamento funzionale come qualcosa di vagamente offensivo. Basti dire che non si è mai visto nessun invitato a una sfilata smontare dalla bici davanti a una delle venue della notoriamente inclemente (e non solo meteorologicamente parlando) fashion week di febbraio. Gli arrivi, più che altro, si materializzano a bordo di berline a noleggio, da cui passeggeri scendono con passo studiato e occhiali da sole spavaldamente indifferenti al cielo plumbeo che (in quella stagione sì) incombe sulla città.

Ma se sia il gran dispiego di flotte NCC che l’uso fuori contesto degli occhiali da sole hanno delle spiegazioni – che almeno per quanto riguarda la settimana della moda possiamo far confluire sotto al grande cappello concettuale “(dell’)avere più carisma e sintomatico mistero” (cit.) –, quello che ormai non convince più è l‘ostinazione a prediligere l’auto per il commuting quotidiano.

Il problema della dipendenza dall’auto infatti non riguarda solo gli eventi mondani. Spostarsi in macchina anche nelle zone centrali è diventata una consuetudine difficile da scalfire. Non per sola pigrizia, ma perché l’urbanistica della città è stata pensata per i motori: la legittimità di occupare la strada è stata storicamente riservata ai veicoli a combustione, e il nuovo codice della strada (fine 2024) non ha certo aiutato. Al contrario, ha reso più difficile la convivenza con ciclisti e pedoni, arrivando persino a episodi grotteschi, come quando alcuni politici di Forza Italia si sono messi a martellare il cordolo ancora fresco di posa della ciclabile di viale Monza.

Queste dinamiche non sono nuove. Già nel 1973 Ivan Illich, nel suo saggio Energie et équité (tradotto in italiano da Bollati Boringhieri come Elogio della bicicletta), denunciava l’uso smodato dell’energia nei trasporti. La sua tesi era semplice: qualsiasi mezzo che superi i 25 km/h produce disuguaglianze sociali ed effetti ambientali distruttivi. L’auto privata ne è l’esempio perfetto: obbliga ciascuno a viaggiare isolato, monopolizza spazio urbano per il parcheggio e richiede enormi investimenti pubblici in strade e infrastrutture di controllo. Il risultato? Una città dominata dalla tecnocrazia e da un sistema energivoro che si spaccia per progresso.

In questo quadro, la bicicletta rimane l’unico mezzo davvero efficiente, economico e anarchico, ancora relativamente immune dalle nuove regolamentazioni. Eppure a Milano, città piatta e compatta, il suo utilizzo è ancora frenato dalla scarsa disponibilità di piste sicure. Dal 2021 è partito Cambio, un ambizioso piano ciclabile intercomunale finanziato dal PNRR che promette 750 km di nuove linee entro il 2035. Se saranno corsie tracciate o piste protette non è ancora chiaro, ma intanto le prime realizzazioni hanno già suscitato l’ira di Lega e Fratelli d’Italia, pronti a difendere con sit-in di protesta e martelli la sacralità del parcheggio.

Il dibattito è noioso ma aperto: chi a Milano usa davvero l’auto per andare a fare acquisti? Viale Monza, con una prevalenza di negozi d’abbigliamento sulle altre categorie di esercizi commerciali, è una propaggine low-cost di Corso Buenos Aires, autentica via dello shopping cittadino e costellato dai punti vendita delle grandi catene del fast fashion. Il tipo di negozi più attraente per i turisti che non per i residenti, e verrebbe anche da dire che in tutti i casi le multinazionali d’abbigliamento con un fatturato di oltre 30 miliardi l’anno non rientrano propriamente tra quei piccoli commercianti nostrani da tutelare con ardore padano.

Nel frattempo, il sindaco Beppe Sala si è dato un obiettivo preciso: ridurre le auto per abitante da 49 a 40 ogni cento entro il 2033, avvicinando Milano alla media europea (36-38). Si direbbe segnale incoraggiante, così come anche la delibera del 2020 che ha escluso “i brand automobilistici non coerenti con le politiche di sostenibilità ambientale” dalle sponsorizzazioni pubbliche. Niente più pubblicità delle auto affisse per la città quindi? No! La formulazione vaga è pensata apposta per concedere delle illustri esenzioni ai brand ritenuti meritevoli, vedi il pannello monumentale di Audi che ad oggi spicca sulla facciata del Pirellino.

ph. Riccardo Raspa for Rayon Vert campaign “Born to Walk, Forced to Drive”

Come osserva Franco La Cecla nella postfazione a Elogio della bicicletta, “le auto dovrebbero avere una warning label come i cibi malsani”. E in effetti, mentre la pubblicità continua a venderci SUV come status symbol, la realtà è molto meno sexy: spot girati su strade alpine deserte e lucide di pioggia contrastano con la verità delle otto del mattino su via Padova, dove lo stesso veicolo appare goffo e fuori luogo come un cocomero a Natale.

In alternativa, Milano potrebbe guardare a chi la bici la usa già come strumento di lavoro. I bike messenger, attivi dal 2008, hanno dimostrato che consegne più rapide, zero emissioni e meno traffico non sono utopia. In molte città europee le cargo bike sono ormai parte integrante della logistica urbana: niente tempi morti per cercare parcheggio, meno multe, maggiore agilità nei centri pedonali. E – dettaglio non trascurabile – un’immagine di efficienza che sa anche di bellezza, con quei muscoli tonici e allungati che guizzano sotto ai vestiti attillati. Questo a dimostrazione del fatto che in certi casi il connubio tra performance e apparenza non solo è possibile, ma funziona anche sorprendentemente bene.

I bike courier avrebbero, oltre al fascino, un set di informazioni piuttosto utile da condividere con urbanisti e architetti su come riorganizzare lo spazio della città in funzione del movimento umano. In un ipotetico dialogo con la comunità, saprebbero dare tanto indicazioni di flusso quanto sulla versatilità della biciletta. è infatti importante tenere a mente che la bici è un mezzo perfettamente idoneo a trasportare carichi di medio volume anche quando sprovvista di cassone. Per dire che comunque, se anche uno avesse voglia di andare a gonfiare le casse del solito pugno di brand manager facendo spese pazze in Corso Buenos Aires, con un minimo di equipaggiamento non avrebbe problemi a trasportare un paio di borsoni di vestiti nuovi o il forno per la pizza casalinga trovato in sconto da Kasanova.

Se anche solo una parte dei milanesi automuniti sostituisse l’auto con la bici, la città guadagnerebbe milioni di metri quadrati di spazio liberato dal parcheggio. Non si tratterebbe solo di mobilità: così facendo uscirebbero anche dal ruolo passivo di consumatori nel ciclo industriale del trasporto. Se le persone, ormai così abituate a calarsi nel ruolo di passeggero, vedessero oltre il gioco di specchi con cui si fa schermo l’industria del consumo, riscoprirebbero non solo il proprio ritmo, ma anche il proprio diritto a sottrarsi a una dipendenza che è spacciata per libertà.

Naturalmente, non tutto dipende dalle scelte individuali. La crisi climatica impone politiche strutturali: non bastano le buone intenzioni dei singoli, servono decisioni coraggiose da parte delle istituzioni. Perché Milano non ha bisogno di più auto “green”. Ha bisogno di strade riconsegnate alle persone, che diventino uno spazio vivibile in grado di soddisfare allo stesso tempo le esigenze di utilità e piacere, dove muoversi significhi non solo spostarsi, ma vivere lo spazio urbano.

Come scrive Lucia Tozzi in L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023): “Il There Is No Alternative thatcheriano si applica anche alle strade, con la resa degli spazi dei cittadini davanti alla superpotenza dei veicoli a motore, ingrassati dai fondi che li promuovono come simboli di libertà e sicurezza”. Di fronte a questa asimmetria di potere non basta applicare una strategia difensiva che si limita denunciare ciò che non funziona senza avere il coraggio di pretendere il minimo, ossia il diritto di vivere in una città vivibile allo stesso modo per tutti.

Camminare e pedalare sono modi per decolonizzare la mente e uscire dall’antropocentrismo meccanizzato e classista che suddivide le persone tra chi può permettersi il lusso di avere un’auto personale e chi no, ma come anche tra chi può permettersi il lusso di non doverla usare perché vive in una zona centrale e chi questa possibilità per questioni di ceto non ce l’ha. Camminando e pedalando, si possono incontrare amici e conoscenti lungo la strada e concedersi il tempo per uno scambio imprevisto.

Decidere di non usare l’auto per muoversi in città equivale a fare delle affermazioni politiche e culturali, che rifiutano l’aderenza a una logica dello spostamento esclusivamente strumentale. Significa rivendicare tempo, spazio, relazioni. Riprendere il controllo del proprio corpo, del proprio spazio e del proprio tempo, in un esercizio di consapevolezza e di azione politica. La strada, letteralmente, è lì. Basta decidersi a riprenderla.

ELENA BERTACCHINI

Generazione millennial, origini emiliane. Dieci anni fa si trasferisce a Milano attratta come una falena dalle luci sfavillanti della figlia prediletta del capitalismo: la moda. Come una falena, si brucia presto le alucce metaforiche — simbolo della sua provinciale e fiduciosa idea del fashion biz. Oggi si lava la coscienza alternando la sua meschina attività di styling con la scrittura di articoli polemici e domeniche passate a consumarsi le ginocchia in lunghe pedalate di autopurificazione.