Videogiochi per la guerra, videogiochi contro la guerra

a cura di Matteo Lupetti
Videogiochi per la guerra, videogiochi contro la guerra

Il videogioco, come l’informatica, nasce negli USA durante la Guerra fredda in industrie e università fortemente legate alle necessità e ai finanziamenti del settore della difesa. Lo sviluppo dei primi proto-videogiochi, come Spacewar! (Steve Russell, 1962), potrebbe essere letto come un atto sovversivo: una macchina militare o prevalentemente militare, cioè il computer degli anni 60 e 70, veniva trasformata in un giocattolo. Ma il videogioco non è mai realmente uscito dall’orbita della guerra, e anzi software commerciali nati per l’intrattenimento, i loro set di sviluppo (i game engine) e opere da loro derivate sono ormai stabilmente parte del repertorio militare.

Già tra 1980 e 1981 l’esercito statunitense commissionò alla compagnia videoludica Atari una versione del suo simulatore di carro armato Battlezone (1980) per addestrare all’uso degli armamenti dei veicoli Bradley. In un ambiente ancora influenzato dalla controcultura la conversione incontrò tra l’altro una certa opposizione. Poi, nel 1996, il corpo dei marine modificò Doom II: Hell on Earth (id Software, 1994) e realizzò Marine Doom per l’addestramento alla cooperazione e alla comunicazione durante le operazioni. I riusi militari dei videogiochi commerciali sono però diventati rilevanti soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni 90 e ancora di più dopo l’11 settembre 2001 e l’inizio della cosidetta guerra globale al terrorismo da parte degli USA. La militarizzazione del videogioco commerciale e la crescente produzione di videogiochi a tematica militare sono insomma aspetti della più ampia militarizzazione della vita civile nella war on terror.

Command Modern Operations (Slitherine, 2019) [1] (1)

Nella serie Serious Games I-IV (2009-2010) il regista Harun Farocki racconta come il settore militare statunitense usi spazi virtuali per preparare le truppe e trattare il disturbo da stress post-traumatico. Serious Games I: Watson is Down (2010) documenta per esempio l’addestramento dei marine in Virtual Battle Space 2 (Bohemia Interactive Simulations, 2007), basato sul game engine Real Virtuality 2 del videogioco commerciale ArmA: Armed Assault (Bohemia Interactive Studios, 505 Games, Atari, 2006) e sviluppato con il supporto dell’Australian Defence Force, che aveva finanziato pure il precedente Virtual Battle Space (2004), basato sul Real Virtuality 1 (2004) di Operation Flashpoint: Cold War Crisis (Bohemia Interactive Studios, Codemasters, 2001). Una lista pubblicata nel capitolo di Randy Nichols in Joystick Soldiers. The Politics of Play in Military Video Games (a cura di Nina B. Huntemann e Matthew Thomas Payne, Routledge, 2009) elenca ben 17 videogiochi disponibili commercialmente e usati nel 2008 come parte dell’addestramento militare statunitense.

“Il mondo del gaming è molto più avanti nella tecnologia del settore pubblico” ci dice Marco Minoli, publishing director della compagnia anglo-italiana Slitherine e vincitore nel 2025 del premio Outstanding Individual Contribution agli Italian Videogame Awards di IIDEA, l’associazione di categoria dell’industria videoludica italiana. Slitherine è specializzata in videogiochi di strategia, e realizza versioni professionali dei suoi prodotti commerciali per le forze armate di vari paesi. “Con una frazione dei soldi che spenderebbero per sviluppare questo software possono averne uno già pronto, che possono modificare (vendiamo delle versioni molto aperte) o possono chiederci di modificare” continua Minoli. Per la parte di analisi hanno Command, “una piattaforma olistica che ti permette di testare sistemi, pianificare e analizzare missioni, usare large language models per creare scenari che poi fai giocare al software milioni di volte con piccoli cambiamenti nei parametri per capirne i possibili risultati…” Il principale cliente negli USA è l’Air Force Research Laboratory, che lo usa per pianificare il consumo di carburante nel sud-est Pacifico. Command viene usato anche per l’educazione, cioè addestramento e wargaming. “Organizziamo dei summit o interforze o internazionali e il software viene usato per confrontarsi con specifici scenari impostati da noi” spiega Minoli. Per l’educazione, ma a livello di scuole militari, c’è pure il simulatore tattico Combat Mission.

Un caso diverso è America’s Army (2002) un videogioco di sparatorie con visuale in soggettiva (uno “sparatutto in prima persona”) online e a squadre sviluppato con un game engine disponibile commercialmente (l’Unreal Engine) dall’esercito statunitense stesso per farsi conoscere da potenziali nuove reclute. Come racconta in un’intervista sempre contenuta in Joystick Soldiers il colonnello Casey Wardynski, direttore del progetto, America’s Army fu una delle risposte messe in campo di fronte al crollo degli arruolamenti. L’obiettivo era arrivare a un pubblico giovane, dai 13 anni in su, e farlo familiarizzare con l’esercito prima dei 17 anni, l’età minima per arruolarsi. “Il gioco contribuisce a creare un consumatore più preparato” spiega Wardynski. America’s Army è un advergame, una pubblicità giocabile parte di un’operazione di rebranding che ha portato l’esercito nella cultura popolare: il suo successo ha dato il via a una serie continuata fino al 2022.

dead-in-iraq (Joseph DeLappe, 2006-2011). Courtesy the artist [1]

Il videogioco può facilmente diventare strumento militare perché è un giocattolo aperto a nuove interpretazioni. Ma appunto in quanto giocattoli “i giochi militari hanno la potenzialità sia di trasmettere un’ideologia sia di permetterne il sabotaggio, anche quando forniscono un addestramento che prima sarebbe stato disponibile solo entrando a far parte delle forze armate” scrive Nichols. Anzi, interagire con sistemi, seppur nascosti in quella scatola nera che è un videogioco, può rendere le persone consapevoli del loro funzionamento, può invogliare a tentarne i limiti, e a romperli.

Proprio in America’s Army, tra 2006 e 2011, l’artista statunitense Joseph DeLappe ha realizzato la performance online dead-in-iraq, insieme un memoriale, una protesta e un avvertimento. DeLappe entrava in una partita online del videogioco e invece di partecipare alla battaglia digitava nella chat pubblica nome, età, ramo delle forze armate e data di morte delle persone statunitensi cadute durante l’invasione dell’Iraq allora in corso. Quando non veniva espulso, il suo personaggio era comunque inevitabilmente ucciso, e DeLappe continuava a scrivere davanti al cadavere del soldato virtuale, che assume una certa centralità nella documentazione fotografica della performance e nelle sue successive reinterpretazioni (in sculture e disegni a grafite). Il cadavere digitale diventa un sostituto per le immagini dei soldati morti e delle loro bare, censurate dal governo. “Sono cresciuto durante la guerra del Vietnam e ricordo vividamente le immagini che si potevano vedere su riviste popolari come Life e Time – immagini che ebbero una parte non piccola nel consolidare l’opposizione a quella guerra” ci scrive DeLappe. “Il governo Bush lo impedì, grazie al suo uso del giornalismo ‘embedded’ e a uno stretto controllo su tali immagini”. L’opera ha un precedente: War Poets Online (a partire dal 2002), in cui DeLappe inserisce nella chat di un videogioco militare online (nell’ultima versione, Verdun di Blackmill Games, 2015) le poesie scritte durante la Prima guerra mondiale dai poeti britannici Siegfried Sassoon e Wilfred Owen. E un ulteriore progetto, iraqimemorial.org (non più online), ha raccolto proposte per memoriali dedicati alle vittime civili irachene, di cui non esiste alcun registro completo, ed è culminato con una mostra a New York nel 2011. “Probabilmente  prima credevo che se la popolazione americana avesse visto i risultati della nostra violenza nel mondo, la violenza delle nostre truppe o le sue vittime civili, avrebbe in qualche modo cambiato idea” conclude DeLappe. “In questo sono forse stato ingenuo”.

Anche i machinima, film fatti nei videogiochi, hanno spesso affrontato criticamente la rappresentazione della guerra nel medium. Deviation (Jon Griggs, 2006), il primo film di questo genere ad avere la sua première in una delle principali rassegne (il Tribeca Film Festival), è girato in Counter-Strike (Valve, Sierra Studios, 2000), un videogioco simile ad America’s Army. Un soldato virtuale diventa consapevole del suo futile ciclo di morti e resurrezioni, ma non riesce a convincere i suoi commilitoni ad abbandonare il combattimento e gli ordini. Perché nei videogiochi di guerra “non si può giocare alla diserzione”, dice la voce narrante di un altro machinima, How to Disappear – Deserting Battlefield (2020), in cui il collettivo Total Refusal parte dall’ennesimo sparatutto, Battlefield 5 (Electronic Arts, 2015), per raccontare la storia della diserzione e della disobbedienza, e la loro assenza nei videogiochi militari. Ma forse, il punto è che “non si può giocare alla guerra”, come suggerisce ancora la voce narrante. “Per definizione, ai giochi si gioca volontariamente – e la maggior parte delle persone che partecipano a una guerra nel mondo reale non lo fanno di loro volontà”.

MATTEO LUPETTI

Matteo Lupetti si occupa di critica di arte, arte digitale e videogioco su testate come Artribune e Il Manifesto e all’estero. Ha fatto parte della redazione della rivista radicale menelique e della direzione artistica del festival di narrazioni di realtà Cretecon. Il suo primo libro è “UDO. Guida ai videogiochi nell’Antropocene” (Nuove Sido, Genova, 2023), rilettura del medium videoludico nell’epoca del cambiamento climatico e all’interno dei nuovi percorsi multisciplinari che mettono in primo piano il non umano e la sua agency.