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Autenticità plausibile. I corpi possibili di Francesco Dell’Acqua

di Giacomo Nicolella Maschietti
intervista a Francesco Dell’Acqua

“Scrivo, perché non so disegnare”.

Basterebbe soltanto questo statement per appassionarsi alla ricerca di Francesco Dell’Acqua.

Nel suo nuovo progetto, I corpi possibili. Un’autenticità plausibile, porta l’AI fuori dall’equivoco del “virtuosismo digitale” e la riconduce al territorio dell’arte, quello in cui contano l’autorialità, la visione, la responsabilità. Filosofo di formazione, autore televisivo e professionista della comunicazione, Dell’Acqua si muove in bilico tra scrittura e immagine: la parola come origine, la tecnologia come estensione, la pittura come orizzonte.

La sua ricerca non dichiara la macchina come protagonista, ma come strumento da addomesticare e integrare. Nei titoli delle opere — da Ecce Synth a Bye Bye Terra, da Il santo a Le farfalle non sono innocenti — c’è già una tensione narrativa, un racconto che non si accontenta della superficie. È un lavoro che nasce da esperienze concrete, da fotografie scattate in metropolitana o in salotto, da suggestioni intime che l’AI amplifica fino a renderle visioni.

Dell’Acqua parla di “autenticità plausibile”: non il vero assoluto, ma un vero che è personale, riconoscibile, costruito attraverso un processo che mette insieme materia digitale e gesto pittorico, correzione e scelta critica, fiducia e conflitto con la macchina.

È in questo spazio che prende forma la conversazione che segue, dove l’artista racconta a The Bunker la propria pratica, il passaggio dalla scrittura televisiva al prompt, la responsabilità autoriale di fronte all’AI e il senso di una ricerca che non è mai solo tecnologica, ma umana fino in fondo.

Senza l'alba, dalla serie "I Corpi Possibili. Un’autenticità plausibile", 2025, Francesco Dell’Acqua. Courtesy Francesco Dell’Acqua
Come è cambiato il tuo modo di raccontare storie passando dalla scrittura televisiva all’uso dell’intelligenza artificiale per «dare forma e colore» alle parole?

La scrittura televisiva è la mia professionalità e il mio lavoro. È una scrittura che si modula a seconda dei formati e dei generi, ma che ha sempre un tratto comune: deve essere precisa, puntuale, ancorata al tempo. È un testo che diventa parlato, che deve già contenere un orizzonte narrativo, perché scrivere un copione significa prevedere in anticipo dove stai andando. La televisione ti obbliga a costruire una linea chiara: puoi avere imprevisti nel momento della diretta, certo, ma non nel momento della scrittura. 

Lì non c’è spazio per l’improvvisazione, devi pensare a tutto in anticipo, come se stessi tracciando una mappa. La scrittura che uso con l’intelligenza artificiale, per generare immagini, è invece un salto in un’altra direzione. Qui le parole non devono adattarsi a un conduttore, non devono reggere una scaletta: diventano pura materia espressiva. È una scrittura molto più libera, quasi un flusso di coscienza. 
La paragono alle macchie di Rorschach o alle forme che si cercano nelle nuvole: lanci parole e poi osservi cosa diventano. Molte volte scrivo per suggestioni, più che per logica: non è una scrittura lineare, è una scrittura che schizza, che esplode come una tela di Pollock. Io so a grandi linee dove voglio arrivare, ma l’AI sorprende le mie parole incarnandole in qualcosa che non avevo ancora visto. Ed è lì che nasce l’opera. Per questo parlo di un viaggio dentro l’imprevisto, perché è un percorso con un’unica direzione, ma un attraversamento di mondi possibili che si aprono davanti a me.

La differenza è questa, che la televisione mi chiede rigore, controllo, capacità di tenere una rotta, mentre l’AI mi offre l’occasione di perdermi, di seguire incubi e sogni, di farmi sorprendere. Certo, serve sempre attenzione critica. La macchina non è neutra, mi riporta tutto quello che è il suo riferimento, ecco perché non mi limito mai ad accettare ciò che mi restituisce: devo scegliere, interrogare, correggere, cancellare. Altrimenti il rischio è fermarsi alla superficie estetica e smarrire il senso. 

Alla fine, quello che cambia davvero è la sostanza della parola. Nella scrittura televisiva è voce, tempo, ritmo. Nella scrittura AI diventa immagine, colore, atmosfera. Il prompt non è solo una frase: è un gesto che apre uno spazio. E in quello spazio io trovo la parte più interiore del mio lavoro, quella che non può essere prevista ma che si lascia scoprire solo vivendo l’imprevisto.

Puoi descrivere passo-passo il tuo processo creativo — dal testo iniziale all’immagine finale — e come scegli quali tool AI usare e quando intervenire manualmente?

Descrivere il mio processo creativo con l’AI è complicato, perché non è lineare.

Ricordo una frase che mi disse, quasi due anni fa, una persona molto esperta di intelligenza artificiale: “Quando trovi il tuo modo di promptare non dirlo a nessuno, perché è lì la tua unicità.” Ed è vero: ognuno ha il proprio linguaggio, il proprio metodo, e quello che rende ogni AI artist diverso è proprio la sua maniera di scrivere, di suggerire, di lanciare le parole contro quel muro di cui parlavo prima. Se dovessi raccontare il mio percorso, direi che all’inizio inizio, mi sono immerso in una fase iper-descrittiva. Scrivevo tutto: un sole che tramonta dietro montagne basse, tranne una più alta al centro, la luce che filtra tra le nuvole, i contorni sfumati. Quella scrittura produceva immagini lineari, coerenti con la descrizione. Poi però ho capito che la vera espressività nasce quando riesci a rompere quella logica, quando inizi a scrivere in modo più paradossale, meno ordinato. È lì che il risultato comincia a restituire qualcosa che ti appartiene davvero.

Molte volte non parto solo dalla scrittura. Spesso è accompagnata anche da fotografie che scatto io, perché lavoro molto con i ritratti. Alcune delle mie creazioni a cui sono più legato, come Il Santo, Bye Bye Terra e Tutti i pomeriggi, sono nate così. Una fotografia in metropolitana, un ragazzo che mendica con dignità, mia madre vecchia abbandonata sul divano: momenti catturati e poi trasformati. In questo modo prompto alla macchina: “parti da qui”, e poi la lascio entrare nel mio mondo. Ma è un dialogo, prendo ciò che l’AI mi restituisce, lo riscrivo, lo modifico, lo rimetto dentro come nuova reference, con un prompt diverso. È un continuo entrare e uscire. Per questo non esiste un processo logico unico. È un insieme di tecnche che modelli su te stesso. Conta tantissimo chi sei, il tuo linguaggio, il tuo bagaglio, i colori che cerchi, le immagini che ti hanno formato, le cose che ti commuovono, che ti fanno ridere, che ti spaventano, i traumi e le gioie che porti dentro. Tutto questo passa attraverso le parole che lanci nella macchina. E poi c’è un aspetto tecnico che non si può ignorare. Ogni AI ha i suoi parametri, le sue impostazioni, i suoi algoritmi. Bisogna conoscerli, sperimentarli, perché il risultato non nasce mai solo dalle parole ma dall’incontro fra le parole e queste variabili.

Chi pensa che basti scrivere “voglio un fiore giallo” e aspettarsi un capolavoro, si sbaglia di grosso. Dietro c’è un lavoro di affinamento continuo, di prove e aggiustamenti, di dialogo tecnico con lo strumento che usi. Il punto straordinario dell’intelligenza artificiale è che moltiplica le possibilità davanti ai tuoi occhi. Dove il pittore o lo scultore scelgono nel gesto una sola opzione, qui ne hai centinaia, migliaia tra cui solo tu puoi scegliere, e ti puoi perdere o ritrovarti. Io arrivo a generare anche settemila, ottomila immagini per un’unica opera, a lavorarci per mesi, a lasciarle lì e riprenderle dopo un tempo in cui sono cambiato anch’io. Perché è così: quando torni su un lavoro, non sei più lo stesso, e l’opera cambia con te. È un atto creativo che ha qualcosa di terapeutico, perché ti mette davanti a ciò che sei, alle tue possibilità e ai tuoi limiti. Naturalmente c’è anche una lotta con la macchina.

Devi addomesticarla a un linguaggio che non ti appartiene sempre, devi tradurre i tuoi riferimenti, adattarti e al tempo stesso imporre la tua visione.

Ma poi ci sono i momenti in cui tu e la macchina vedete la stessa cosa, ed è sorprendente: lì senti che stai attraversando un confine vero. E quando l’immagine è pronta, il lavoro non è finito, anzi, c’è sempre una fase successiva: rifinitura, post-produzione, aggiunta di grane, ritocchi sui dettagli, espansioni di formato. È un ritorno alla manualità, alla fattualità, che chiude il cerchio. Ecco perché per me l’AI non è un un gioco. Può esserlo, certo, anzi, in parte deve esserlo, perché devi avere quell’incoscienza divertita per domarla. Ma per chi decide di immergersi davvero, diventa una materia — non fisica, ma comunque materia — che ti obbliga a misurarti con le infinite possibilità del creare. È un viaggio che, se ci entri fino in fondo, cambia te e il modo in cui guardi il mondo.

Il santo, dalla serie "I Corpi Possibili. Un’autenticità plausibile", 2025, Francesco Dell’Acqua. Courtesy Francesco Dell’Acqua
Hai detto che l’AI per te è «materia grezza» e non ami il virtuosismo: come stabilisci il confine tra usare l’AI come mezzo e lasciare che diventi essa stessa protagonista dell’opera?

Addomesticare l’AI. È questa la parola che uso spesso — forse «educare» suona più elegante, ma «addomesticare» porta con sé la verità dell’istinto. La macchina tende a ribellarsi alla direzione che le imponi, restituisce spesso cose che riportano prima il suo repertorio estetico che la tua volontà. Per questo la gestione dei parametri, delle reference, della scrittura tecnica e della definizione dei dettagli non è un optional, ma il cuore del creare con l’ AI. Come dicevo prima, non basta scrivere “voglio un fiore giallo” e aspettarsi un risultato adulto. Dietro ogni immagine che funziona ci sono impostazioni, seed, scale, negative prompt (non descrivi solo ciò che vuoi, ma anche ciò che “ non” vuoi), reference reinserite, modifiche in step successivi. I primi passaggi restituiscono quasi sempre un grezzo che va rielaborato, corretto, lavorato come fosse liquido, fino a trovare la forma che davvero ti appartiene.

Il confine tra usare l’AI come mezzo e lasciarla diventare protagonista lo riconosco così: un’opera è mia se, guardandola, sento che è il risultato di una volontà che partiva da me e non solo l’effetto speciale dello strumento. L’AI mi serve a portare fuori quel pezzo che mi manca, quella luce, quel volto, quella crepa emotiva che io non avrei potuto realizzare da solo. Quando arrivo a un risultato che mi sorprende, ma che so essere esattamente quello che volevo, allora l’AI ha fatto il suo lavoro di mezzo integrato. Se invece il risultato grida la sua tecnica, se diventa il trionfo dell’esasperazione, del grottesco, dei tre occhi e delle quattro bocche, lì, per me, non c’è più opera, ma solo lo strumento che si mette in mostra. Il mio scopo non è ottenere un’immagine iperrealistica, anzi. Il mio lavoro è digitale, ma va nella direzione della pittura, di una resa simil-pittorica. Cerco pennellate, grane, matericità. Ogni opera passa attraverso un processo che richiama il gesto pittorico: dall’elaborazione iniziale al lavoro successivo di rifinitura, io non cerco la perfezione fotografica ma quell’imperfezione viva che restituisce l’emozione di un dipinto. È lì che entra il concetto di autenticità plausibile: un’opera è autentica quando è riconducibile a qualcuno, quando senti che dietro c’è un autore, una volontà che ha voluto quell’immagine in quel modo. Per me, dunque, quando mi ci vedo io.

Nella mia visione, l’AI non deve dichiararsi in modo estetico, ma concettuale. Non ho problemi a dire che la uso, ma non deve diventare la protagonista della scena. Deve integrarsi con me, servire la mia visione, non sostituirla. È materia da modellare, e come ogni materia va contrastata, plasmata, a volte combattuta. Ci sono momenti in cui devo piegarla al mio linguaggio, e momenti sorprendenti in cui io e la macchina vediamo la stessa cosa. È lì che nasce l’opera: quando il mezzo non domina più, e non scompare, ma si integra, restituendo qualcosa che appartiene a entrambi e che senza quell’incontro non sarebbe mai esistito.

La tua formazione come autore e la scuola di scrittura Belleville: quanto influiscono ancora la scrittura e la narrazione verbale nella genesi dei tuoi lavori visivi generati con AI? Succede mai il contrario, cioè che l’immagine generata suggerisca testi o sceneggiature?

“In principio era il verbo” — ecco, è così che mi viene da rispondere, perché per me la parola è l’atto creatore per eccellenza. Anche se non sono credente, l’apertura del Vangelo di Giovanni — il più filosofico dei vangeli — ha una forza potente, anche nella sua continuazione: “e il Verbo era presso Dio”. 
E già nella Genesi troviamo la volontà creatrice che nomina la luce: “sia la luce.”, e la crea, “e la luce fu”. In termini più laici, la parola nomina e il mondo prende consistenza, compreso quello emotivo. 

Riportando tutto a una dimensione infinitamente più modesta: la narrazione verbale è il ventre da cui tutto nasce, compresi noi stessi (non abbiamo tutti un nome proprio?). Non c’è atto creativo vero che non passi attraverso la parola: è la parola che separa, che mette distanza e senso, che rende riconoscibile il mondo e ci permette di abitarlo con consapevolezza. Ecco perché è alla base di tutto quello che sono e faccio — e questo non può non valere anche per il modo in cui uso e intendo l’intelligenza artificiale. 

La scuola di annuale di scrittura Belleville che ho frequentato nel 2023, è stata fondamentale, perché mi ha rimesso in mano la tecnica della parola. Ho ricominciato da zero a pensare i vocaboli, le pause, il ritmo, il modo in cui una frase può aprire un’immagine dentro chi ascolta. Vengo da una formazione filosofica, con un imprinting ermeneutico: il mio linguaggio è indagine più che pura descrizione. 

Ma avevo bisogno anche di tornare al gesto creativo, per poter essere — volendo dirla con semplicità — altro da me e da ciò che ero stato fino a quel momento. E quel luogo mi ha dato la possibilità di imparare di nuovo a usare la parola come strumento di invenzione. In concomitanza è arrivata anche la tecnologia, che mi ha permesso di disegnare con la parola. “Scrivo perché non so disegnare” è sempre stato il mio modo di definirmi, e con l’AI quel sogno si è concretizzato: posso scrivere “fiore” e vedere un fiore. Ma la gerarchia non è cambiata: la parola rimane all’origine, perché ogni immagine contiene già in sé un racconto non detto, che l’AI non fa altro che rendere visibile.

Succede anche il contrario: a volte un’immagine generata mi fa venire voglia di scrivere. Un volto, una luce, un dettaglio che non avevo previsto possono aprire una storia che prima non c’era. Non è un processo automatico, è più un dialogo: l’immagine ti risponde e ti rimanda qualcosa che non ti aspettavi. In quei casi la parola resta comunque centrale, perché è l’unica che può trasformare quella suggestione visiva in un racconto che altri possano leggere e capire. Chissà, magari un giorno scriverò davvero storie a partire dalle mie immagini, perché spesso finiscono per restituirmi un racconto loro, con una vita propria.

La lezione che ho imparato in questi anni è che la scrittura non è uno scherzo: è fatica, rispetto, responsabilità. Affidare parole al mondo significa cedere una parte di sé, significa dare forma a memorie e a sentimenti che prima erano soltanto correnti interne. È un prezzo che devi pagare perché il risultato abbia valore. Quando penso ai ritratti che creo, alla ricerca dell’autenticità plausibile, già pago anche questo prezzo.

In fondo, tutto il mio lavoro con l’AI è una continuazione di quel primo gesto: nominare per creare. La tecnologia ha ampliato i modi in cui posso farlo, mi mette davanti possibilità inedite, ma non sostituisce la mia necessità, la mia fame di parole.

In termini di responsabilità e attribuzione, come pensi si debba raccontare al pubblico (e alle istituzioni culturali o televisive) un’opera creata con AI? Chi è l’autore — e come comunichi la collaborazione uomo-macchina?

Rispondere su diritto d’autore e intelligenza artificiale è una domanda da “sei milioni di dollari”, perché parliamo di una tecnologia nuovissima, sorprendente, e anche inquietante. Inquietante perché è molto “umanizzata”: ci mette davanti al rischio e alla possibilità di una sostituzione, ci costringe a guardarci allo specchio come specie creativa. Ogni tecnologia, quando nasce, produce un’etica: detta nuovi comportamenti, distingue quelli buoni da quelli cattivi, e poi inevitabilmente porta alla creazione di una morale. Ma la morale non basta. Alla fine è la legge che deve dire cosa si può e cosa non si può fare. 

Per questo l’AI è già entrata nei tribunali e nelle leggi in costruzione di Europa e Stati Uniti: bisogna decidere chi è autore e come funziona il diritto d’autore. La direzione che vedo giusta è questa: valutare quanto un’opera è determinata dalla persona che la realizza. Perché l’AI può generare immagini, ma la differenza sta in quanto io, come autore, intervengo, scelgo, dirigo, plasmo il risultato. È la quota umana, creativa, che fa la differenza. E questo è esattamente dove stanno andando le legislazioni: non basta schiacciare un bottone, serve dimostrare la regia umana. Il paragone con la fotografia lo rende chiaro. Tutti abbiamo uno smartphone, tutti possiamo scattare, ma tra un mio selfie con i filtri e una foto di Helmut Newton c’è un abisso. La macchina fotografica è un mezzo, non l’autore. Ovviamente la differenza è che la macchina fotografica non inventa, registra ciò che l’autore ha scelto di mettere nel mirino. 

È un’estensione dell’occhio e della mano: decide chi guarda, da dove guarda, con quale luce e in quale momento. L’AI generativa invece ha un’autonomia diversa: non si limita a riprendere, ma rielabora miliardi di dati e produce immagini che non esistevano prima. È un salto enorme. Però, anche in questa autonomia, resta decisivo chi la guida, chi la condiziona, chi la seleziona. Perché senza scelte umane il risultato dell’AI rimane massa indifferenziata. E così come la fotografia non ha tolto il valore all’autore ma ha aperto un nuovo linguaggio, anche l’AI, pur nella sua diversità, non annulla l’autore: lo costringe a ridefinirsi. E questo porta a un altro punto che per me è fondamentale: non c’è nulla di degradante nel dire che un’opera è stata realizzata da me insieme all’intelligenza artificiale. 

Anzi, la parola “insieme” mi piace. Perché non riduce la mia autorialità, ma la racconta per com’è oggi: non più un atto solitario, ma un processo corale. Corale perché nella mia testa, anche quando lavoro da solo, agisce un coro di voci: le mostre che ho visto, i film che ho amato, i volti familiari, gli amori passati, le letture, le storie. Tutto si intreccia nel momento creativo. L’AI non cancella questo coro, lo amplia: mi mette in dialogo con un immaginario collettivo ancora più vasto. Ecco perché parlo di “autenticità plausibile”: non è una verità assoluta, è una verità creata, costruita con scelte riconoscibili. L’AI non banalizza, se sai governarla; anzi, potenzia il talento, come ogni grande tecnologia creativa ha fatto nella storia. E se lo dovessi spiegare a un pubblico televisivo, lo direi così: “Quest’opera l’ho creata io, con la collaborazione dell’intelligenza artificiale. Non c’è nulla di degradante nel dirlo, è come dire che una fotografia si fa con la macchina fotografica. Non basta avere lo strumento: conta chi lo usa, le scelte che fa, lo sguardo che mette dentro. Così è per l’AI: il mezzo è potente, ma il linguaggio, lo stile e l’anima restano dell’autore. Tutti possiamo scattare foto, ma questo non ci rende fotografi. E lo stesso vale per l’AI: tutti possono generare immagini, ma non tutti diventano artisti. L’arte è ancora questione di sguardo, e lo sguardo resta umano.”

Una verità che si costruisce
 
“I corpi possibili” non si fermano all’esperimento visivo: mettono in scena un nuovo rapporto tra autore e tecnologia, dove il confine non è tra naturale e artificiale, ma tra un linguaggio che si riconosce e uno che si disperde. Dell’Acqua mostra come l’AI, se governata, diventa specchio e amplificazione del sé, non scorciatoia.
In questo senso, la sua “autenticità plausibile” non è un ossimoro, ma una dichiarazione di poetica: l’arte resta un atto di sguardo, e lo sguardo, inevitabilmente, resta umano.
Le farfalle non sono innocenti, dalla serie "I Corpi Possibili. Un’autenticità plausibile", 2025, Francesco Dell’Acqua. Courtesy Francesco Dell’Acqua
Francesco dell’Acqua

Laureato in Filosofia con orientamento ermeneutico, Francesco Dell’Acqua è autore televisivo e professionista della comunicazione. Il suo interesse per l’intelligenza artificiale nasce come estensione naturale della scrittura: un modo per trasformare le parole in immagini. Con l’AI come strumento consapevole e non come fine, esplora la creazione di realtà visive plausibili, in cui l’identità personale modella il possibile.

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