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B(IA)S

Dovremmo smettere di chiamarla intelligenza artificiale?

di Alessandro Mancini

Le nuove tecnologie stanno cambiando per sempre il nostro mondo. La domanda è: in meglio o in peggio?
Quali sono i rischi, le ombre, i pericoli? 

Non tutto ciò che risponde, scrive, crea immagini o ti parla con voce umana è davvero “intelligente”. Eppure continuiamo a chiamare ‘intelligenza artificiale’ qualcosa che, in fondo, non pensa, non prova emozioni, non comprende.

 È questo il punto di partenza – e di rottura – del filosofo Luciano Floridi, docente alla Yale University e direttore del Digital Ethics Center, che nel suo recente paper propone di abbandonare l’etichetta “AI” in favore di una più precisa: Artificial Agency, agenzia artificiale.

 Per Floridi, ciò che oggi chiamiamo intelligenza artificiale non possiede coscienza, intenzionalità, comprensione. Non pensa, non sente, non sa di sapere. Opera. E basta. È una forma sofisticata di agire automatico, capace di interazione, autonomia e adattamento, ma totalmente priva di interiorità o significato. Chiamarla “intelligente” equivale ad attribuirle, anche inconsciamente, caratteristiche umane. È un errore semantico, ma anche politico: genera aspettative, paure, illusioni. In una parola, confusione.

Il rischio più grande? Antropomorfizzare ciò che è puramente algoritmico. Proiettiamo sulle macchine desideri, paure e capacità che non possiedono. Così facendo, finiamo per delegare le responsabilità, che sono tutte umane. Se un’AI sbaglia, di chi è la colpa? Sua? Di chi l’ha programmata? Di chi l’ha messa in commercio? Smettere di chiamarla “intelligente” – sostiene Floridi – non è un gioco linguistico, ma un passo cruciale verso una governance più efficace, più sobria, più etica.

A rafforzare questa visione contribuisce anche HI! Human Intelligence (2025), il documentario del regista Joe Casini presentato nel 2025, che esplora – attraverso interviste, esperimenti sociali e narrazioni ibride – le molteplici forme dell’intelligenza umana, da quella emotiva a quella collettiva, da quella creativa a quella relazionale. Il film si muove tra neuroscienze, arte, filosofia ed educazione per mostrare che l’intelligenza non è solo calcolo logico o memoria, ma è anche empatia, intuizione, creatività, collaborazione. In questa prospettiva, usare la stessa parola – intelligenza – per indicare sia il nostro complesso e sfaccettato universo cognitivo che l’efficienza predittiva di un modello linguistico appare quantomeno riduttivo. E, forse, pericoloso.

Parlare di agenzia artificiale non vuol dire sminuire i risultati dell’IA, ma collocarli nel giusto contesto. Non stiamo costruendo nuove intelligenze, stiamo costruendo nuove forme di azione automatica. Potenti, pervasive, influenti – ma non senzienti.

Non è solo una questione di etichette. È una questione culturale, politica, persino etica. Perché – come scrive Floridi – “una definizione più accurata non cambia solo il vocabolario. Cambia il modo in cui affrontiamo il futuro”.

 

Alessandro Mancini

Laureato in Editoria e Scrittura all’Università La Sapienza di Roma, è giornalista freelance, content creator e social media manager. Tra il 2018 e il 2020 è stato direttore editoriale della rivista online che ha fondato nel 2016, Artwave.it, specializzata in arte e cultura contemporanea. Scrive e parla soprattutto di arte contemporanea, lavoro, disuguaglianze e diritti sociali.

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