Il numero 189 di October dedica un ampio Questionnaire on Art and Machine Learning a ventiquattro artisti, teorici e critici, offrendo una panoramica del dibattito sul rapporto tra arte e intelligenza artificiale. La maggioranza proviene dagli Stati Uniti o lavora in ambito statunitense (circa il 70–75%): un campione dunque non rappresentativo a livello globale, ma significativo del dibattito angloamericano contemporaneo. Le posizioni emerse si distribuiscono in due grandi atteggiamenti:
1) Artisti che “usano l’AI per odiarla meglio” (come disse Nam June Paik a proposito della tecnologia) – un po’ prevalente, più di metà degli interventi. Qui rientrano coloro che maneggiano strumenti di IA solo per smontarli: denunciano bias, estrattivismo, logiche di sorveglianza, retoriche venture capital, ecc. Questa critica è vasta, articolata e costituisce una conoscenza indispensabile, anche se non tutte le argomentazioni sono ugualmente convincenti. Personalmente la trovo utile ma anche ripetitiva e un po’ di passaggio, perché non può che rappresentare una fase temporanea di fronte a una tecnologia che già oggi è parte dell’infrastruttura culturale e sociale. Il rifiuto di utilizzare la tecnologia (se non, appunto, per criticarla) è un atteggiamento inevitabilmente destinato a scomparire.
2) Artisti che ne riconoscono le criticità ma la usano anche per i lati positivi o innovativi – poco meno della metà. Qui troviamo approcci più cauti e pragmatici: si riconoscono rischi e distorsioni, ma si esplorano anche possibilità artistiche e teoriche. In questo gruppo la critica diventa propedeutica o parallela alla sperimentazione, al passaggio verso un uso più creativo e costruttivo dei sistemi. Come dicevo la posizione è leggermente minoritaria, ma va notato che il board della rivista fa parte della prima categoria.

Tra i contributi quelli che ho trovato più interessanti, Stephanie Dinkins insiste sul ruolo delle narrazioni come algoritmi culturali e propone che le comunità emarginate possano “donare” le proprie storie all’IA per inoculare prospettive alternative, orientandole verso la cura piuttosto che verso il controllo. Noam M. Elcott affronta lo spazio latente come nuova forma di “griglia culturale”, erede delle tecniche storiche di organizzazione del visibile, e ne mette in luce l’opacità ma anche il potenziale estetico. Lev Manovich inquadra l’IA generativa nella lunga storia dei media digitali e degli algoritmi grafici, definendola come “predictive media” capace di separare e ricombinare pattern visivi in modi del tutto inediti. Antonio Somaini legge i latent spaces come nuove condizioni epistemiche che collegano ciò che è visibile e ciò che è dicibile, invitando gli artisti a non subirli ma a costruirne di antagonisti e alternativi. Infine, Christopher Kulendran Thomas offre una riflessione ibrida tra politica, economia e pratica artistica: critica l’allarmismo strumentale di Big Tech e immagina scenari in cui l’IA possa favorire modelli post-capitalistici di cooperazione.
Un dettaglio rilevante, osservando la ricezione culturale dell’IA, è che la fase di rabbia verso gli artisti visivi che usano generatori sembra calare. Nel 2022–2023 il dibattito era dominato dall’allarme di illustratori e fumettisti che vedevano minacciata la propria pratica – lo ricordo bene per una shitstorm per aver osato pubblicare Sunyata – ma oggi quel clima si è un po’ attenuato: da un lato perché la curva dell’indignazione segue un copione di panico e normalizzazione ricorrente (un “ciclo sisifeo” secondo la studiosa Amy Orben), dall’altro perché l’uso delle immagini AI si è rapidamente normalizzato, entrando nel flusso quotidiano di moltissimi creativi. Al contrario, la diffidenza si è spostata sulla scrittura: l’impiego di modelli linguistici nei testi giornalistici, accademici o letterari suscita oggi reazioni che ricordano la paranoia iniziale contro le immagini (“Non capiscono! Non le usate!”).
È probabile che ciò dipenda anche da una semplice asincronia storica: l’ondata visiva è arrivata prima, quella testuale sta emergendo adesso. Appena un’IA riesce a fare qualcosa, entriamo in quella che Benjamin Bratton ha descritto come una sequenza di cinque fasi del lutto. Prima la negazione: l’idea che la macchina non possa produrre nulla di buono e (contraddittoriamente) che sia un pericolo. Poi la rabbia, che si manifesta come indignazione collettiva e accuse di tradimento della creatività umana. Segue la contrattazione, con tentativi di delimitare gli usi accettabili e quelli proibiti. Arriva quindi la depressione, quando diventa chiaro che la tecnologia non scomparirà e che alcuni ruoli tradizionali sono destinati a cambiare (credo che con le immagini molti siano a questa fase). Infine, seppur lentamente, si giunge all’accettazione: l’integrazione dell’IA come parte del paesaggio culturale e creativo, da criticare e allo stesso tempo da abitare.

Un concetto che trovo utile per leggere il rapporto tra arte e IA è invece quello di creatività distribuita, elaborato tra gli altri dallo psicologo Vlad Gl?veanu. In questa prospettiva, la creazione non è mai il frutto di un singolo genio isolato, ma nasce dall’intreccio di attori, strumenti, pubblici e contesti. L’autore diventa un nodo di una rete che comprende materiali, tecniche, istituzioni, aspettative e adesso algoritmi. Pensare l’IA come parte di questa ecologia creativa consente di ridimensionare sia le paure che l’hype eccessivo: non è un rivale, ma un nuovo attore intessuto in una trama di azioni, vincoli e possibilità che già includeva pennelli, fotocamere, software, archivi e strutture economiche. Più che rifiutarlo, dovremmo pretendere che non resti in mano a pochi monopoli.
È forse arrivato il momento in cui possiamo seguire l’appello di Dinkins, quando scrive: «Invece di aggrapparci con ostinazione a vecchie prassi, gerarchie di lavoro, rivendicazioni di proprietà intellettuale o di privacy, dovremmo adattare il nostro modo di pensare e i nostri quadri normativi per imparare a cavalcare il cambiamento esponenziale introdotto dalle tecnologie intelligenti, sapendo anche riorientarne i vantaggi. Questo senza smettere di richiamare alla responsabilità il settore tecnologico e i decisori politici, in modo che l’IA venga costruita intorno alla cura e all’apertura sociale. L’etica da mantenere è: always be learning, continuare a imparare, un invito a espandere costantemente conoscenza e comprensione di fronte alla rapida evoluzione dell’intelligenza artificiale».
Una cosa senz’altro da imparare è non che dobbiamo aver paura delle macchine, ma di chi le possiede.
Francesco D’Isa, di formazione filosofo e artista digitale, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017), mentre per Edizioni Tlon è uscito il suo saggio filosofico L’assurda evidenza (2022). Le sue ultime pubblicazionio sono la graphic novel Sunyata per Eris edizioni (2023) e il saggio La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella editore (2024). Direttore editoriale della rivista culturale L’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste, italiane ed estere. È docente di Filosofia presso l’istituto Lorenzo de’ Medici (Firenze) e di Illustrazione e Tecniche plastiche contemporanee presso LABA (Brescia)?.