LA RIVOLUZIONE ALGORITMICA

Il piano muscolare dell’IA trumpiana: open-source, colonialismo e neutralità apparente

a cura di Francesco D'Isa
Il piano muscolare dell’IA trumpiana: open-source, colonialismo e neutralità apparente

È uscito senza troppo rumore (almeno in Italia) l’America’s AI Action Plan, il manifesto trumpiano sulle intelligenze artificiali. È un testo muscolare, testosteronico, che richiama i toni dell’America anni Ottanta-Novanta da cui proviene la cultura politica che lo ha redatto.

Da un lato compie una scelta che si può definire lungimirante: non sottovalutare l’AI e non trattarla come un settore tecnologico tra gli altri ma come priorità strategica, e per questo sostenere, seppur con calcolo egoistico, la linea open-source. La Casa Bianca ha deciso di puntare sugli open-weight e sull’accesso diffuso al calcolo per accelerare startup e ricerca, così da imporre standard statunitensi e creare una filiera che rimanga agganciata all’ecosistema americano.

È un passaggio importante, perché segna la volontà di costruire l’egemonia attraverso l’apertura: catalizzare gli innovatori interni e attrarre chi non ha le risorse per sostenere costi proibitivi. È una direzione che l’Europa avrebbe potuto prendere in chiave più comunitaria, ma che ha sacrificato a favore di un dibattito ossessivo sul copyright, incapace di capire che irrigidire i diritti d’autore nella fase di training significa solo consegnare un vantaggio strutturale a chi già possiede grandi cataloghi e grandi capitali. Non a caso nel documento americano il copyright non viene nemmeno menzionato, perché considerato un ostacolo secondario rispetto alla corsa all’innovazione.

Immagine generata con ChatGPT.

Fine delle (apparenti) buone notizie. Il piano infatti non si limita a finanziare l’innovazione interna, ma prevede l’esportazione integrale dello stack americano, dai chip ai modelli, dai software agli standard regolatori, vincolando gli alleati a una dipendenza tecnologica che ha come unico scopo escludere Pechino. È un colonialismo digitale sfacciato, che non si nasconde nemmeno dietro retoriche universaliste – i tempi del soft power sembrano alle spalle.

A questa logica geopolitica si aggiunge una deregolazione ambientale senza precedenti negli ultimi decenni: il piano riduce drasticamente i controlli, introduce nuove “categorical exclusions”, estende i corridoi FAST-41, indebolisce le tutele del Clean Air e del Clean Water Act, mette a disposizione terreni federali per costruire data center ed energia a tempo record. È come dire: costruite subito, poi forse misureremo l’impatto. L’urgenza dell’IA viene messa davanti a ogni altra considerazione, cancellando in un attimo le cautele introdotte negli anni Settanta quando l’America aveva deciso che il progresso doveva fare i conti con i suoi costi ecologici.

Ma se possibile il punto più inquietante non è questo, quanto l’imposizione di un filtro ideologico alla tecnologia. L’amministrazione ha ordinato al NIST di eliminare dai suoi framework ogni riferimento a disinformazione, cambiamento climatico e politiche DEI in ambito di diversità ed equità. I modelli che il governo potrà acquistare dovranno risultare “neutrali” e “oggettivi”, termini usati come sinonimi di allineati alle politiche e idee di Trump.

Immagine generata con ChatGPT.

L’effetto è paradossale:  in nome di una inesistente neutralità si rischia di produrre modelli amputati di interi domini di conoscenza, dunque meno accurati e competitivi sul piano scientifico. È un errore strategico oltre che culturale; un’intelligenza artificiale che non parla di clima o di disinformazione non è neutra, è semplicemente cieca, e un ecosistema cieco non vince nessuna corsa tecnologica. Vale la pena ricordarlo a chi accusava le IA cinesi di non poter parlare di Taiwan: potremmo trovarci di fronte a modelli americani quasi terrapiattisti.

Il piano è un ibrido molto fragile; da un lato l’impulso open-source, meritevole almeno come mossa tattica, dall’altro un colonialismo digitale che punta a vincolare gli alleati, una deregulation ambientale che trasforma l’urgenza in alibi, e un’idea di oggettività che scambia la rimozione di temi sgraditi con la neutralità.

In questo modo gli Stati Uniti rischiano di decretare da soli la loro sconfitta nella competizione sulle AI. L’Europa, che non è nemmeno entrata seriamente in gara, guarda da lontano. E la domanda è: se gli americani scelgono di correre con un’IA zoppa e noi non corriamo affatto, chi sarà a vincere?

Resta ovviamente la Cina. La sua governance dell’AI è dichiaratamente allineata ai valori del Partito e ogni sistema generativo deve passare valutazioni di sicurezza prima di raggiungere il pubblico. È un’impostazione censoria che non finge neutralità, anzi rivendica la propria ideologia. Sul piano industriale costruisce capacità di calcolo attraverso programmi nazionali, sviluppa chip domestici per ridurre la dipendenza da GPU americane, finanzia cluster di data center e punta a superare i 300 exaflops entro il 2025. Dentro questo quadro dirigista, paradossalmente, vive una delle scene open-weight più vivaci: modelli come Qwen o DeepSeek rilasciano pesi e licenze permissive, creando un ecosistema che cresce rapidamente e che in alcuni casi riesce a competere con risorse più contenute.

In definitiva, lo scenario che si profila è tra la rigida colonizzazione americana, un’Europa preoccupata che si perde nei regolamenti senza dotarsi di infrastrutture e una Cina che, pur censoria, costruisce capacità di calcolo e modelli aperti con pragmatismo industriale. Non so chi vincerà, ma certo l’oriente sembra culturalmente più adatto; le sue tradizioni culturali, da Confucio a Laozi, hanno insegnato a vedere il sapere come frutto di relazioni e non di individui. L’Occidente si aggrappa al polveroso mito dell’autore e dell’oggettività, mentre la Cina, pur rivendicando la propria parzialità, accetta che ogni opera sia collettiva, ed è forse questa consapevolezza che rende il suo ecosistema più adatto a durare. D’altra parte per un buon raccolto non bastano buoni semi, serve anche la terra adatta.

Francesco D’Isa

Francesco D’Isa, di formazione filosofo e artista digitale, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017), mentre per Edizioni Tlon è uscito il suo saggio filosofico L’assurda evidenza (2022). Le sue ultime pubblicazionio sono la graphic novel Sunyata per Eris edizioni (2023) e il saggio La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella editore (2024). Direttore editoriale della rivista culturale L’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste, italiane ed estere. È docente di Filosofia presso l’istituto Lorenzo de’ Medici (Firenze) e di Illustrazione e Tecniche plastiche contemporanee presso LABA (Brescia)?.