FAR EAST

Schiavitù digitale: il nuovo volto del lavoro forzato

Schiavitù digitale: il nuovo volto del lavoro forzato

Le reti di schiavitù digitali crescono nel Sud-Est Asiatico, intrappolando giovani in cerca di lavoro in brutali complessi che alimentano l’impresa criminale globale informatica. 

Immagina di rispondere a un’offerta di lavoro online: “Call center internazionale, ottima paga, lavoro flessibile in Asia”. Sei entusiasta, adatti il tuo CV, parti. Ma una volta arrivato, scopri che non c’è né flessibilità né stipendio come promesso. Ti tolgono il passaporto, vieni rinchiuso in un compound, costretto a lavorare 12-14 ore al giorno davanti a uno schermo, contattando vittime ignare da coinvolgere in investimenti truffa o ricatti romantici.
Anche l’innovazione, a volte, si piega agli schemi più antichi: se l’intelligenza artificiale può “rubare” il nostro lavoro, non sembra essere una minaccia per quello forzato.

La cyber-schiavitù è una forma di sfruttamento forzato che combina traffico di esseri umani e crimine informatico. Le vittime vengono reclutate con promesse ingannevoli – un impiego regolare, uno stipendio superiore alla media locale – e poi trasportate in centri dove devono perpetrare frodi digitali: romance scam (relazioni sentimentali fasulle usate per truffare), phishing, frodi legate alle criptovalute o call center criminali.
Gli strumenti tecnologici sono centrali: profili falsi, piattaforme crypto, software di automazione e social engineering.

La trappola è spesso ben camuffata. I lavoratori viaggiano con visti turistici predisposti da intermediari locali, quindi la loro partenza non desta sospetti. Le autorità d’immigrazione raramente intervengono, perché i documenti e le prenotazioni risultano apparentemente legittimi. Una volta arrivati, però, i passaporti vengono confiscati e la sorveglianza è costante.
Tra le tattiche più comuni figurano minacce fisiche o psicologiche, punizioni per chi non raggiunge gli “obiettivi” di profitto e turni di lavoro estenuanti.

Immagine via Google Creative Commons.

La cyber-schiavitù è un fenomeno relativamente recente, ma ha trovato terreno fertile nel Sud-Est asiatico. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nell’aprile 2024, la regione è oggi il principale epicentro delle truffe online globali. Con l’accelerazione della digitalizzazione dopo la pandemia, anche le frodi hanno subito un’impennata.

In molti Paesi asiatici, le rimesse dei lavoratori all’estero rappresentano una parte importante del PIL: il 5% in Bangladesh, il 9% nelle Filippine, fino al 25% in Nepal. Per chi vive in contesti di povertà o precarietà, un impiego “in ufficio” nel settore tecnologico può sembrare un’occasione d’oro.
Ma proprio questa vulnerabilità economica alimenta il reclutamento. Le vittime ideali sono giovani con competenze digitali di base e una conoscenza almeno elementare dell’inglese.

La maggior parte delle persone non viene rapita, ma adescata volontariamente tramite annunci su Facebook, Instagram o app di messaggistica come WhatsApp e Telegram. Gli annunci promettono stipendi tra i 1.000 e i 1.500 dollari al mese per ruoli vaghi, come ad esempio traduttore, assistente clienti o operatore internazionale. Loghi aziendali falsi, colloqui inscenati e offerte contrattuali ben confezionate contribuiscono a rendere l’illusione credibile.

Solo dopo l’arrivo si scopre la verità: compound isolati, nessuna libertà di movimento e condizioni di lavoro disumane. Senza documenti e soldi le vittime vengono messe davanti ad una scelta: accettare il lavoro o morire. 

Fuggire è quasi impossibile senza aiuto esterno. A febbraio 2024, ad esempio, un gruppo armato in Myanmar ha liberato 260 persone di 19 nazionalità diverse intrappolate in centri di truffa su scala industriale.

Dall’inizio della pandemia, i complessi in cui vengono rinchiuse le vittime si sono moltiplicati in tutta l’Asia, spesso riutilizzando vecchie aree di casinò in disuso, soprattutto in Cina e Cambogia.
Un rapporto del United States Institute of Peace del 2024 stima che le truffe informatiche generino profitti per 12,5 miliardi di dollari in Cambogia, 15,3 miliardi in Myanmar e 10,9 miliardi in Laos – quasi il 40% del PIL complessivo di questi tre Paesi.

Le vittime provenienti da Nepal, Bangladesh e Filippine sono tra le più esposte: la povertà, la mancanza di impieghi ben retribuiti e la forte dipendenza economica dalle rimesse creano un bacino perfetto per i trafficanti.

La natura stessa di Internet complica ogni intervento. Le organizzazioni criminali operano in un Paese, reclutano in un altro e colpiscono obiettivi in tutto il mondo. Reati come il pagamento di riscatti in criptovaluta sfuggono ai tradizionali quadri giuridici e alle competenze territoriali dei tribunali.

Nei diciotto mesi precedenti ad aprile 2024, l’Ufficio investigativo contro il traffico di esseri umani del Nepal ha registrato 16 casi di schiavitù digitale e arrestato 25 persone, tra cui tre cittadini cinesi. Ma il perseguimento penale resta complesso, proprio per le difficoltà legate alla giurisdizione internazionale e alla natura transnazionale del fenomeno.

La cyber-schiavitù è la nuova frontiera dello sfruttamento umano: invisibile, globalizzata e perfettamente integrata nel tessuto tecnologico contemporaneo. È la dimostrazione che, anche nell’era del lavoro digitale, la vulnerabilità resta una risorsa per i criminali.

Camilla Fatticcioni

Studiosa di Cina e fotografa. Dopo la laurea in lingua Cinese all’università Ca’ Foscari di Venezia, Camilla ha vissuto in Cina dal 2016 al 2020. Nel 2017 inizia un master in Storia dell’Arte alla China Academy of Art di Hangzhou interessandosi di archeologia e laureandosi nel 2021 con una tesi sull’iconografia Buddista delle grotte di Mogao a Dunhuang. Combinando la sua passione per l’arte e la fotografia con lo studio della società contemporanea Cinese, Camilla collabora con alcune riviste e cura per China Files la rubrica Chinoiserie.