LA RIVOLUZIONE ALGORITMICA
Storia naturale del Brain Rot
di Francesco D'Isa
Uno sguardo critico e filosofico sull’intelligenza artificiale e la sua influenza su società, cultura e arte. La rivoluzione algoritmica si propone di esplorare il ruolo dell’AI come strumento o co-creatore, interrogando i suoi limiti e potenzialità nella trasformazione dei processi conoscitivi ed espressivi.
Chi è giovane li conosce e chi è vecchio ha letto qualche articolo che li spiega: l’Italian brainrot. Si tratta di un contagio memetico nato su TikTok tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. Clip di pochi secondi con chimere generate con l’AI – uno squalo che indossa sneakers, un coccodrillo bombardiere, un bastone con in mano un bastone – mentre una voce palesemente sintetica recita filastrocche nonsense in italiano. In poche settimane, nomi come «Tralalero Tralala» o «Brr Brr Patapim» invadono i feed globali, producendo migliaia di varianti.
Come in tutti gli scambi memetici, l’autrice o l’autore individuale perde il suo ruolo a favore di un collettivo fluido, in cui gli strumenti digitali — generatori di immagini, voci sintetiche e algoritmi di raccomandazione — non si limitano a supportare l’atto creativo, ma ne diventano parte integrante. TikTok e Instagram non sono soltanto teatri di consumo, ma luoghi di co‑produzione, dove le soglie tra chi osserva e chi agisce vengono continuamente rinegoziate. Questi fenomeni sono perfette esemplificazioni della teoria della creatività distribuita di Vlad Petre Glăveanu, una revisione dell’abituale concetto di creatività che sposta l’attenzione dal genio isolato all’ecologia di relazioni che rende possibile ogni atto inventivo.
Al centro non c’è l’“autore” ma l’“azione”, un gesto che prende forma nell’incrocio fra diversi attori, artefatti, pubblico, affordance e tempi. Gli attori portano con sé esperienze, motivazioni e saperi, ma diventano creativi solo quando si incontrano e si scambiano i ruoli di guida e ascolto. Gli artefatti – siano essi strumenti, materiali o algoritmi – non sono meri supporti, bensì nodi che condensano idee passate e aprono varchi per trasformazioni future. Il pubblico non è uno spettatore passivo, ma interpreta, valuta, diffonde e rilancia, aggiornando di continuo il significato di ciò che vede. Le affordance, ossia i vincoli e le possibilità offerti dall’ambiente culturale e tecnologico, orientano l’immaginazione fornendo percorsi che la creatività può accogliere o aggirare.

Questi cinque poli operano sulle tre direttrici sfumate che sostengono la dinamica creativa. La socialità: qualunque intuizione nasce nell’interazione, trova conferma o correzione nello sguardo altrui e si nutre di un dialogo potenzialmente infinito.
La dimensione materiale‑semiotica: strumenti, linguaggi e segni non solo mediano l’azione, ma ne plasmano i confini, segnando limiti che spesso si rivelano trampolini. La temporalità: ogni esito creativo si innesta su tracce precedenti, viene reinterpretato, genera varianti e diventa a sua volta risorsa per altre invenzioni. In questa prospettiva, l’innovazione è una tensione costante, un tessuto che si addensa e si lacera per ricomporsi altrove, mantenendo viva la continuità tra memoria e novità. Glăveanu ci invita a leggere la creatività come processo fluido, storico e collettivo, in cui ciò che conta non è la scintilla del singolo, ma la trama di dipendenze materiali, simboliche e culturali che rende ogni idea condivisibile, trasformabile e fertile.
Se il meccanismo memetico sembra nato dall’algoritmo, il suo DNA è dunque antico e trasversale. D’altra parte il brainrot italiano sembra un fenomeno nativo digitale, ma affonda le radici in una pratica che i tipografi del Seicento avrebbero riconosciuto al primo sguardo. A Londra, ad Anversa o a Venezia, le botteghe di stampa creavano delle incisioni che poi sfruttavano all’infinito: l’immagine del cosiddetto «how‑de‑do man» con il braccio teso in segno di saluto, o di una coppia di galeoni in battaglia, migravano da un libello avventuroso a una ballata d’amore, da un volantino di cronaca nera a un pamphlet moralista.
Ogni passaggio metteva l’immagine in un contesto nuovo, arricchendola di significati; Katie Sisneros ha parlato di «early‑modern memes», proprio per descrivere questo riciclo incessante che trasformava un’incisione in un segno condiviso, pronto a riaccendersi a ogni ristampa. I cataloghi dell’English Broadside Ballad Archive mostrano centinaia di matrici «promiscue», passate di torchio in torchio per decenni, fino a diventare irriconoscibili per l’usura.

Quella catena di riusi funzionava grazie a una serie di vincoli (il costo del legno, la fretta di stare sul mercato) e a un ecosistema di attori che ben rispecchia la teoria della creatività distribuita di Glăveanu.
Il blocco xilografico era l’artefatto; l’azione era la composizione del foglio, come anche la recitazione del testo; il pubblico erano i passanti che ascoltavano, compravano, ritagliavano; le affordance erano la carta a buon mercato, l’assenza di copyright, la mobilità dei venditori ambulanti, la stampa. Il risultato era una mente collettiva in cui nessuno possedeva davvero l’immagine, ma tutti la riconoscevano e la piegavano a nuovi scopi—esattamente come oggi chiunque può prendere «Brr Brr Patapim», cambiare l’animale o la rima e rilanciare il meme nel feed.
Se nel Seicento l’immagine si spostava fisicamente da un torchio all’altro, oggi viaggia come output di un generatore AI, eppure il meccanismo resta identico: un’idea si propaga perché qualcuno la legge, la interpreta, la trasforma e la reimmette nel flusso. Cambiano i materiali—legno, carta, pixel, reti neurali—ma resta la dinamica di cooperazione competitiva che descrive Glăveanu: attori e pubblico si scambiano di posto, gli artefatti conservano tracce dei passaggi, le tecnologie aprono e chiudono strade. Dietro il coccodrillo bombardiere che ci compare su TikTok, possiamo intravedere il fantasma del «walking‑stick man» stampato su un broadsheet del 1670. Entrambi vivono non nella testa di un genio solitario, ma nella rete di persone, immagini e ripetizioni che li fa nascere, morire e rinascere
Francesco D’Isa
Francesco D’Isa, di formazione filosofo e artista digitale, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017), mentre per Edizioni Tlon è uscito il suo saggio filosofico L’assurda evidenza (2022). Le sue ultime pubblicazionio sono la graphic novel Sunyata per Eris edizioni (2023) e il saggio La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella editore (2024). Direttore editoriale della rivista culturale L’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste, italiane ed estere. È docente di Filosofia presso l’istituto Lorenzo de’ Medici (Firenze) e di Illustrazione e Tecniche plastiche contemporanee presso LABA (Brescia).