La tecnologia mette ansia, solo in occidente.
di Camilla Fatticcioni
In Occidente viviamo nella fase Black Mirror della tecnologia – ne abbiamo paura, ci aspettiamo che ci tradisca, che ci invada, che ci rubi il lavoro. In Cina, invece, siamo nella fase Star Trek: la tecnologia è uno strumento di progresso, di miglioramento, qualcosa che può rendere la vita più semplice.
La prima volta che sono arrivata a Shanghai, nel 2016, mi stupii di quanto il contante fosse effettivamente inutile. Tirare fuori una banconota sembrava un gesto imbarazzante, fuori tempo massimo, quasi folcloristico. Tutto si pagava con un QR code: il taxi, il baozi bollente preso per strada, persino il mendicante all’angolo aveva un codice QR per chiedere l’elemosina. Quando tornavo in Italia parlavo di quanto fosse effettivamente pratico non dover uscire di casa con il portafoglio. In quel preciso momento ho avuto la netta sensazione che la Cina fosse avanti anni luce rispetto all’Europa in quanto a tecnologia. Ma non era solo questione di strumenti, dispositivi o infrastrutture. C’era qualcosa di più profondo: un diverso modo di vedere la tecnologia come risorsa. Rileggendo gli articoli scritti fino ad ora per questa rubrica mi sono accorta che spesso mi capitano parallelismi con Black Mirror. Quello che accade in Cina sembra precedere gli episodi della famosa serie distopica britannica, forse anche perché noi “nel vecchio continente” continuiamo a guardare alla tecnologia con una certa diffidenza.
Poco tempo fa, ascoltando un podcast mi sono imbattuta in una citazione di Kaiser Kuo, ex direttore comunicazione di Baidu e voce lucida tra Oriente e Occidente. Diceva più o meno così: “In Occidente viviamo nella fase Black Mirror della tecnologia – ne abbiamo paura, ci aspettiamo che ci tradisca, che ci invada, che ci rubi il lavoro. In Cina, invece, siamo nella fase Star Trek: la tecnologia è uno strumento di progresso, di miglioramento, qualcosa che può rendere la vita più semplice.”
In Europa – e forse ancor più negli Stati Uniti – l’immaginario tecnologico è filtrato da una lente ansiogena. Le serie distopiche, la narrativa cyberpunk, gli editoriali sui pericoli dell’IA: tutto sembra urlarci che stiamo correndo incontro a un abisso. C’è la sensazione che ogni avanzamento – un algoritmo, una nuova app, una macchina che ci ascolta – sia una minaccia alla nostra privacy, alla nostra libertà, o semplicemente alla nostra umanità.
Non è una paranoia priva di fondamento. Abbiamo visto gli effetti collaterali della sorveglianza digitale, del capitalismo delle piattaforme, delle bolle informative. Ma è anche vero che la narrazione dominante in Occidente è profondamente pessimista: quasi che ogni innovazione debba essere analizzata, soppesata, a volte rifiutata, come se dietro ci fosse sempre una trappola. Usiamo le nuove tecnologie, ma non una velata diffidenza. Ci piace confidarsi con Chat GPT, ma critichiamo le immagini e i video generati IA.
In Cina la tecnologia non è percepita come una minaccia, ma come una possibilità concreta.
È un atteggiamento figlio della nostra storia e dei nostri miti: la stessa di Prometeo punito per aver rubato il fuoco agli dei, o quella di Frankenstein che crea un mostro.Ogni progresso sembra portare necessariamente a qualcosa di negativo: abbiamo interiorizzato la diffidenza come forma di protezione.
In Cina, invece, la dinamica è diversa. La tecnologia non è percepita come una minaccia, ma come una possibilità concreta. È la quotidianità. l’IA ti consiglia la spesa su Taobao, ti prenota una visita medica in meno di tre click, i pagamenti digitali evitano qualsiasi tipo di evasione fiscale. È parte integrante della vita quotidiana, e viene accolta con una fiducia quasi disarmante.
Mi ricordo una conversazione con un’amica cinese. Le chiedevo se non le desse fastidio che il governo potesse accedere a tanti suoi dati personali. Mi ha guardata sorpresa, come se la mia domanda fosse fuori luogo. “Se la tecnologia mi aiuta a vivere meglio, perché dovrei averne paura?”
La Cina non ha vissuto il trauma della rivoluzione industriale come in Europa, né quello della privacy post-anni ’70 come negli Stati Uniti. L’approccio è più pragmatico: se una cosa funziona, si usa. Punto. Se migliora l’efficienza, il comfort, la produttività, viene adottata con entusiasmo. Questo non significa che manchi il dibattito – esistono in Cina voci critiche sulla dipendenza da smartphone, sull’impatto delle app sulle nuove generazioni – ma il tono generale è diverso. Non è l’ansia il sentimento dominante, ma la curiosità.
La divergenza tra queste due visioni non è solo geopolitica o tecnologica, ma culturale. In Occidente siamo ossessionati dal concetto di individuo, dalla libertà personale, dal controllo. In Cina, dove la collettività ha sempre avuto un ruolo più centrale, l’innovazione viene valutata anche in base al beneficio che porta alla comunità. L’efficienza urbana, il benessere generale, la qualità della vita. Il risultato è un rapporto con la tecnologia più fluido, meno conflittuale.
L’approccio cinese non è necessariamente migliore. Ci sono zone grigie, ovviamente, e questioni etiche complesse, in particolare quando si parla di privacy e di controlli monitorati dal Governo. Ma è interessante osservare quanto il nostro immaginario occidentale sia spesso prigioniero di sé stesso.
Black Mirror ci spaventa, ma il titolo stesso della serie prende ispirazione dal riflesso che quotidianamente vediamo di noi stessi sugli schermi neri dei nostri smartphone.
Camilla Fatticcioni
Studiosa di Cina e fotografa. Dopo la laurea in lingua Cinese all’università Ca’ Foscari di Venezia, Camilla ha vissuto in Cina dal 2016 al 2020. Nel 2017 inizia un master in Storia dell’Arte alla China Academy of Art di Hangzhou interessandosi di archeologia e laureandosi nel 2021 con una tesi sull’iconografia Buddista delle grotte di Mogao a Dunhuang. Combinando la sua passione per l’arte e la fotografia con lo studio della società contemporanea Cinese, Camilla collabora con alcune riviste e cura per China Files la rubrica Chinoiserie.