LA RIVOLUZIONE ALGORITMICA
Ghiblification: cosa vediamo quando guardiamo una copia?
di Francesco D'Isa
Uno sguardo critico e filosofico sull’intelligenza artificiale e la sua influenza su società, cultura e arte. La rivoluzione algoritmica si propone di esplorare il ruolo dell’AI come strumento o co-creatore, interrogando i suoi limiti e potenzialità nella trasformazione dei processi conoscitivi ed espressivi.
Mezzo mondo si è divertito a generare meme “in stile Studio Ghibli” grazie ai nuovi strumenti text-to-image resi disponibili da OpenAI. Queste creazioni sono state accolte con entusiasmo da alcuni e con scandalo da altri, in particolare da chi le considera un “plagio” o un’appropriazione indebita dello stile e dei personaggi del celebre studio giapponese.
A ben guardare però, le immagini incriminate o sono delle banali foto di famiglia rivisitate o dei meme, in entrambi i casi contenuti decontestualizzati per fini ludici e non commerciali. I meme basati su immagini dello Studio Ghibli inoltre esistevano da prima del boom dell’IA, erano fatti con immagini tratte dai film di animazione dell’autore e la cosa non aveva sconvolto né lui né il pubblico.
Perché ci scandalizziamo solo ora, se i meme esistono da un pezzo? È ovvio che il problema sia l’IA e infatti nel dibattito è stato spesso tirato in ballo un video del 2016 con Hayao Miyazaki, in cui il maestro reagiva con sdegno a un’animazione sperimentale basata su intelligenza artificiale raffigurante creature simili a zombie. Il video, tuttavia, va contestualizzato: all’epoca, le soluzioni AI erano ancora in una fase embrionale e l’effetto grottesco di quelle immagini urtava la sensibilità di Miyazaki, da sempre attento a una rappresentazione empatica dei personaggi. Non sappiamo se la sua posizione si sia evoluta a fronte degli sviluppi attuali o se rimanga la stessa, considerando il tradizionale approccio conservatore di Studio Ghibli in ambito tecnologico. Quel vecchio video continua a essere citato come prova di una presunta opposizione categorica alle nuove forme di IA, ma la casa di produzione ha rilasciato solo un laconico “no comment” sull’ondata di meme – ed è ironico notare come persone in prima linea per difendere la volontà degli autori siano ben veloci a sovrapporvi la propria.

L’apparente disinteresse dello studio nipponico fa persino pensare a un accordo economico tra le parti. In primo luogo, la mancanza di reazioni negative suggerisce che ci sia un’intesa per non ostacolare la circolazione di contenuti che — volutamente o meno — tengono alta l’attenzione mediatica su Ghibli. L’aumento di ricerche online e di vendite legate al brand in concomitanza con questo fenomeno di massa è in effetti significativo, un aspetto che rafforza l’idea che il silenzio di Ghibli non sia semplicemente frutto di disinteresse, ma parte di una strategia — o almeno di un tacito consenso. Si tratta di speculazioni, è vero, ma non prive di una certa logica.
Per chi conosce un po’ la storia dell’arte, inoltre, la polemica nasce vecchia. La prassi artistica dopotutto anticipa spesso delle tensioni che la società affronta in un secondo momento, e il dibattito odierno sulle IA che “copiano” conferma questa dinamica. Figli della Fontana di Duchamp, già negli anni Sessanta artisti come Andy Warhol e Roy Lichtenstein avevano messo in crisi l’idea di originalità, mostrando che la citazione o il riuso di immagini – dal packaging commerciale ai fumetti – poteva assumere un valore dirompente e concettualmente innovativo. Sherrie Levine, fotografando nel 1981 le fotografie di Walker Evans e presentandole come opere proprie, ha accelerato ulteriormente la problematica dell’autorialità, costringendoci a interrogarci sulla natura della copia e sulla funzione dei contesti in cui le opere circolano.
L’idea di “autore” e di “originalità” cambia a seconda dell’epoca e della cultura di riferimento. Nell’antichità classica, per esempio, il concetto di “copia” era tutt’altro che negativo, poiché si considerava l’arte essenzialmente come il perfezionamento o la reinterpretazione di un modello illustre. Nel Medioevo, copiare manoscritti e codici (spesso con alcune modifiche) non entrava in conflitto con l’idea di autenticità, mentre in molte tradizioni orientali l’eccellenza artistica si misurava attraverso la capacità di aderire a forme e tecniche codificate, più che nello slancio individuale. Solo con la modernità occidentale è emersa l’immagine dell’autore come genio irripetibile, rendendo l’originalità un valore pressoché sacro. La nozione di paternità dell’opera insomma è storicamente determinata e ogni epoca, così come ogni contesto culturale, presenta modelli di autenticità e di appropriazione differenti.

Queste riflessioni però non sono mai state metabolizzate dal grande pubblico, che è spesso affezionato a un’idea di arte di matrice romantica e individualista, legata al sacro operare di un genio (un mito a tutti gli effetti machista, come ci ha insegnato Nochlin nel ‘71). Ma sebbene il dibattito non sia presente a livello cosciente è stato comunque assimilato: l’avvento di internet e la diffusione dei meme, che procedono per decontestualizzazioni e risemantizzazioni, hanno mostrato quanto la rielaborazione massiva di immagini sia una pratica comune e spontanea, quasi un riflesso culturale. Con l’intelligenza artificiale, la questione della copia si è riaccesa senza ricordare che è parte di un percorso già ampiamente esplorato: l’arte e il pensiero filosofico, da Foucault a Barthes, da Baudrillard a Hito Steyerl, hanno dissodato il terreno, eppure si continua a dibattere come se nulla fosse cambiato.
È anzitutto necessario comprendere che l’immagine non è più uno specchio del reale, bensì un segno culturale, un frammento di linguaggio che vive di connessioni, rimandi e stratificazioni. Se Baudrillard parlava di “simulacro” per evidenziare il vuoto che si crea tra copia e realtà, e se Hito Steyerl ha analizzato l’iperproduzione e circolazione incessante delle immagini nel mondo digitale, oggi siamo di fronte a un ulteriore salto: la trasformazione da simulacro a ideogramma. L’immagine diventa un segno che vale non tanto per la sua eventuale corrispondenza con un referente, ma per la sua capacità di attivare significati condivisi.
In questo senso, non si tratta di proclamare la morte del realismo in assoluto, bensì di vedere come il realismo, inteso come “finestra sul mondo”, sia stato una parentesi storica determinata da precise condizioni culturali, a partire dal Rinascimento e poi con la fotografia, che consolidò l’idea di una riproduzione fedele della realtà. Ma in periodi ancora più antichi l’immagine aveva già una funzione fortemente simbolica, talvolta alfabetica, basti pensare ai geroglifici egizi o agli ideogrammi orientali. Non è quindi un salto in avanti, ma piuttosto un ritorno a una pratica in cui l’immagine è letta e usata come un codice.
Le generazioni più giovani, immerse in un universo di flussi visivi e comunicativi, interagiscono con le immagini come fossero ideogrammi: le interpretano istantaneamente e le ricombinano con leggerezza, senza percepire il bisogno di ancorarle a una matrice realistica. Da qui si comprende la frattura con chi invece vede ancora l’immagine come specchio di qualcosa di esterno, e vive la sua “appropriazione” come un attentato all’autenticità. Eppure la storia dell’arte e della filosofia ci insegna che l’evoluzione delle tecniche, dei linguaggi e delle loro funzioni è parte integrante del processo culturale. In questa luce, l’IA è un’ulteriore acceleratore di un processo di trasformazione della percezione delle immagini, verso una dimensione di puro segno condiviso: le immagini, che per la prima volta possono essere create con le parole, tornano anche a funzionare come parole, segni ideogrammatici.
Francesco D’Isa
Francesco D’Isa, di formazione filosofo e artista digitale, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017), mentre per Edizioni Tlon è uscito il suo saggio filosofico L’assurda evidenza (2022). Le sue ultime pubblicazionio sono la graphic novel Sunyata per Eris edizioni (2023) e il saggio La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella editore (2024). Direttore editoriale della rivista culturale L’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste, italiane ed estere. È docente di Filosofia presso l’istituto Lorenzo de’ Medici (Firenze) e di Illustrazione e Tecniche plastiche contemporanee presso LABA (Brescia).