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Da ‘human first a ‘IA first’. Cosa cambia sul lavoro se le macchine prendono il nostro posto?

di Alessandro Mancini

Le nuove tecnologie stanno cambiando per sempre il nostro mondo. La domanda è: in meglio o in peggio?
Quali sono i rischi, le ombre, i pericoli? 

Lo scorso 17 giugno, Andy Jassy, CEO di Amazon, ha reso pubblica una comunicazione inviati ai propri dipendenti in cui avvertiva che, nei prossimi anni, l’intelligenza artificiale avrebbe ridotto significativamente la forza lavoro aziendale, con l’automazione di numerosi ruoli operativi.

Solo due settimane dopo, sempre Amazon ha annunciato di aver raggiunto il milione di robot impiegati nei suoi stabilimenti. Si tratta di un cambiamento epocale che, secondo il Wall Street Journal, porterà presto ad avere lo stesso numero di dipendenti umani (oggi circa 1,56 milioni) e di robot nei suoi magazzini. La conseguenza diretta di questa scelta ricalca lo scenario futuro paventato da Jassy nella sua nota: una drastica riduzione del personale.

Questi annunci seguono una tendenza crescente tra le aziende globali, dove la spinta verso l’automazione sta trasformando radicalmente il mercato del lavoro. Da Duolingo, che sta rimpiazzando i lavoratori esterni con soluzioni AI, a Shopify, che obbliga i suoi team a giustificare l’utilizzo di risorse umane rispetto a soluzioni automatizzate, l’adozione dell’IA sta portando a un progressivo ridimensionamento della forza lavoro. Inoltre, aziende come Microsoft, IBM e Workday hanno ridotto considerevolmente il numero di dipendenti, in parte per integrare l’IA nelle operazioni aziendali.

C’è anche, però, anche chi si pente e fa dietrofront. È il caso di Klarna, azienda svedese di servizi di pagamento a rate, che, dopo aver deciso di puntare quasi tutto sull’automazione, tagliando il numero dei dipendenti fino a 2.000 e lasciando solo i profili tecnici, il mese scorso ha cambiato idea, riconoscendo i limiti e i difetti di un’implementazione massiccia dell’IA, e lanciando una campagna di assunzioni per lavoratori da remoto che possano garantire ai clienti la possibilità di parlare con una persona reale.

 Il mercato del lavoro globale e i grandi gruppi industriali sembrano però determinati a seguire l’altro modello, quello di Amazon, per intenderci. Il World Economic Forum prevede infatti che entro il 2027, il 23% dei posti di lavoro sarà interessato da cambiamenti strutturali, con la creazione di 69 milioni di nuovi posti di lavoro e l’eliminazione di 83 milioni. Uno studio di Goldman Sachs stima invece che l’IA generativa potrebbe automatizzare l’equivalente di 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno a livello globale entro il 2030, generando un aumento del 7% del PIL globale annuo.

Nonostante la creazione di nuovi posti di lavoro, i vantaggi innegabili in termini di efficienza, produttività e velocità, il contributo fondamentale in campi come la medicina o la ricerca scientifica, e la nascita di nuove professioni, legate proprio all’utilizzo e all’implementazione dei sistemi di IA, questa rapida accelerazione verso l’automazione solleva dubbi e domande sul destino di milioni di lavoratori che non faranno in tempo a ricollocarsi o che verranno tagliati fuori dal mercato del lavoro. Mentre molte aziende guardano all’IA come una leva per ridurre i costi, la realtà è che in assenza di soluzioni concrete per il reinserimento nel mercato del lavoro, questi cambiamenti rischiano di accrescere le disuguaglianze sociali e aumentare l’insicurezza economica di milioni di persone.

Si può definire come il paradosso o la promessa tradita dell’automazione: per anni magnati, economisti e tecno-entusiasti ci hanno raccontato che la tecnologia avrebbe migliorato le nostre condizioni di lavoro e in generale le nostre vite, fino a liberarci del tutto dal peso del lavoro.

La storia, dalla seconda rivoluzione industriale a oggi, ci mostra però che la realtà è molto diversa e, spesso, più complicata della teoria. Nel mondo tardo-capitalista in cui viviamo, non siamo maggiormente liberi dal lavoro, ma paradossalmente più precari, sfruttati e sostituibili di prima.

Secondo Jason Resnikoff, professore di Storia contemporanea all’Università di Groninga e autore del libro Labor’s End: How the Promise of Automation Degraded Work (University of Illinois Press, 2022), l’automazione, dal modello fordista in poi, è stata sempre presentata come una spinta verso una società migliore, ma nella realtà ha contribuito ad aumentare e, in alcuni casi ad accelerare, lo sfruttamento del lavoro.

“Dobbiamo smettere di ripetere la narrativa per cui il problema è l’IA in sé – scrive la ricercatrice Diletta Huyskes nella sua newsletter Resistere all’inevitabile –  Il problema è l’assenza di una politica che governa il cambiamento: sono le scelte di CEO e istituzioni a determinare chi lavora, come e in quali condizioni. Non chiediamoci se l’IA ci ruberà il lavoro: chiediamoci perché nessuno sta facendo nulla per impedirlo”.

Senza un adeguato sistema di welfare, che comprenda misure di riqualificazione e supporto al reddito, l’integrazione dell’IA potrebbe infatti diventare una minaccia più che un’opportunità.

È fondamentale rafforzare i sistemi di welfare esistenti e valutare l’introduzione di misure collettive di sostegno, come il reddito di base universale, al fine di alleviare gli effetti negativi della disoccupazione tecnologica. Solo con politiche lungimiranti e realmente inclusive, che non solo promuovono l’innovazione tecnologica, ma che garantiscono anche il benessere dei lavoratori, l’automazione potrà essere un motore di progresso, e non di disuguaglianza.

Alessandro Mancini

Laureato in Editoria e Scrittura all’Università La Sapienza di Roma, è giornalista freelance, content creator e social media manager. Tra il 2018 e il 2020 è stato direttore editoriale della rivista online che ha fondato nel 2016, Artwave.it, specializzata in arte e cultura contemporanea. Scrive e parla soprattutto di arte contemporanea, lavoro, disuguaglianze e diritti sociali.

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